Pagina:Fausto, tragedia di Volfango Goethe, Firenze, Le Monnier, 1857.djvu/80

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72 fausto.

sconosciute, ch’io non lo cangerei coi più ricchi vestimenti; non con le porpore dei re.

Vagner. Non invocate, deh, quella ben cognita legione che tempestando discorre per l’atmosfera, e da tutti i lati prepara agli uomini dolori e rovine. Gli spiriti escono addosso a te dal Settentrione, ed ora ti appuntano d’ogni intorno le acute lor sanne, ora ti lambono con lingue rigide come strali: traggono fuori da Levante, e sitibondi pascono il tuo polmone; e se quelli che il Mezzogiorno invia dal deserto ti addensano intorno al capo afa e bollori, un altro stormo ne viene da Ponente, i quali paiono da prima recarli ristoro, e poi sommergono le e le tue biade e i tuoi pascoli. Lieti ti danno ascolto, perchè sempre apparecchiati a mal fare; e lieti ti obbediscono, per che godono d’ingannarti. E diconsi ancora inviati del cielo, e bisbigliano con angeliche voci, quando appunto ti mentono. — Ma torniamcene, chè già incomincia ad annottare; l’aria fassi rigida, e si leva una folta nebbia. A sera conoscesi quanto sia dolce il ricettarsi in casa. — Ma perchè stai tu, e riguardi tutto attonito a quella volta?

Fausto. Vedi tu là quel cane nero che corre per le biade e le stoppie?

Vagner. Da un pezzo io il veggo, nè mi è parso che sia in esso nulla di singolare.

Fausto. Guardalo bene! Per chi prendi tu quella bestia?

Vagner. Per un can barbone che alla sua guisa va per la traccia dal suo padrone.

Fausto. Osservi tu come ei muova in larghe giravolte a chiocciola, e ognora più ne si accosti,