Pagina:Frezzi, Federico – Il quadriregio, 1914 – BEIC 1824857.djvu/239

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capitolo viii 233

     E, benché siano al fiume in sulli liti,
non mai però verun dell’acque toglie,
30ché dal voler di Dio sonno impediti.
     La bella donna di quell’acqua coglie
con diligenza, con una gran brocca,
per saziar le lor bramose voglie,
     ed a quell’alme la trasfonde in bocca;
35ma la lor sete tanto piú s’accende,
quanto piú acqua in gola lor trabocca.
     Ella mi disse:— O tu, che vivo ascende
e contemplando vai questo reame,
la pena di costoro alquanto attende.
     40Benché ’l poeta Copia mi chiame,
nientemen mia acqua mai fa spenta
la sete a questi e loro ardenti brame.
     Or pensa la lor pena se tormenta,
da che l’arsura lor mai non s’estingue,
45né, quantunque acqua beva, si contenta.
     Però qui stanno ianti colle lingue,
come sta il can che ha corso, e con gran folla
corrono a me, che la lor sete impingue.
     — O voglia ingorda e cupa mai satolla,
50a cui la sete maladetta cresce,
quanta piú acqua del mio fiume ingolla,
     qual tutta l’acqua, che nutríca pesce,
non saziaría e non faría dir:— Basta,—
né quanta n’entra in mare ovver che n’esce:
     55nel mondo, onde mi mena la dea casta
— risposi a Copia,— non è questa sete,
al mio parer, cotanto ingrata e vasta.—
     La donna a me:— Lassú non conoscete,
rispetto a quell’arsura che martíra,
60quant’è poca quell’acqua, che bevete.
     La millesima parte, chi ben mira,
quando:— Vorrei— si dice, o:— Se avesse!
non si chiede del ben, che l’uomo disira.