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Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
certo, dissi, queste sillabe sono tutto il suo sapere!
e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello,
come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
a finir che in un mai più!
Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo,
scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
col suo lugubre: «mai più.»
Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
non verrà a posar mai più!
Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!
Mormorò l’augel: Mai più!
O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
o l’averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quassù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!
Mormorò l’augel: Mai più!
O profeta, urlai, profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!
Mormorò l’augel: Mai più!