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126 Codice cavalleresco italiano


L’opinione pubblica non ha torto. Nel passato si privavano delle prerogative cavalleresche solo coloro che s’erano macchiati di fatti contrari alla morale, e così luminosamente provati da non lasciare nell’animo del pubblico e dei giudici alcun dubbio che il colpevole s’era reso indegno di appartenere alla classe dei galantuomini. Verso coloro, invece, che avevano offeso piuttosto la forma che la sostanza morale delle leggi d’onore, s’era di manica larga.

Ed infatti chi scrive, avendo discusso in otto lustri oltre seimila vertenze1 tre volte solo, ha concorso col suo voto a dichiarare altrui decaduto dalle prerogative cavalleresche.

La prima si riferiva ad un Tizio, ch’era stato colpito dalla sentenza del Magistrato per maltrattamenti bestiali verso la vecchia madre;

la seconda a un Caio, il quale dopo aver goduto largamente e per anni della generosa e signorile ospitalità di un amico, si era servito di notizie familiari, sapute o perchè richiesto di consiglio, o perchè rappresentante dell’amico o da lui rappresentato, per diffamarlo e ricattarlo moralmente, gonfiando e travisando, ben inteso, codeste notizie;

la terza ed ultima a un Sempronio, condannato per aver imitato la firma altrui in calce ad effetti cambiari.

  1. Questo è stato il solo vantaggio di aver pubblicato un Codice Cavalleresco. Comunque, sono ben grato a coloro che mi hanno dato prova della loro stima e fiducia, ben sapendo che l’opera e la missione del giudice d’onore, non essendo una professione, non si paga col danaro, ma con l’amicizia e la gratitudine.