Pagina:Gerusalemme liberata I.djvu/241

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CANTO SETTIMO. 215

XLVII.


     Così Tancredi allor, qual che si fosse
Dell’estrania prigion l’ordigno e l’arte,
Entrò per se medesmo, e ritrovosse
372Poi là rinchiuso, ond’uom per se non parte.
Ben con robusta man la porta scosse,
Ma fur le sue fatiche indarno sparte;
E voce intanto udì che, indarno, grida,
376Uscir procuri, o prigionier d’Armida.

XLVIII.


     Quì menerai (non temer già di morte)
Nel sepolcro de’ vivi i giorni, e gli anni.
Non risponde, ma preme il Guerrier forte
380Nel cor profondo i gemiti e gli affanni:
E fra se stesso accusa amor, la sorte,
La sua schiocchezza e gli altrui feri inganni:
E talor dice, in tacite parole,
384Leve perdita fia perdere il Sole.

XLIX.


     Ma di più vago Sol più dolce vista
Misero i’ perdo, e non so già se mai
In loco tornerò che l’alma trista
388Si rassereni agli amorosi rai.
Poi gli sovvien d’Argante, e più s’attrista:
E troppo, dice, al mio dover mancai:
Ed è ragion ch’ei mi disprezzi e scherna.
392O mia gran colpa, o mia vergogna eterna!