Pagina:Ghislanzoni - Abrakadabra, Milano, Brigola, 1884.djvu/222

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animarono di un vivo rossore, e se io non mi sono ingannato, i vostri nervi furono scossi da un elettrismo simpatico.

— Primate! — esclamò la donna rianimandosi improvvisamente — gli è che quella effigie... quelle sembianze...

— Ebbene! — esclamò il medico colla impaziente curiosità di chi sta per afferrare l’ultima parola di un enigma.

— Ebbene! — sospirò l’Immolata — quella effigie e quelle sembianze mi hanno ricordato ciò che una donna della mia condizione ha l’obbligo di obliare, che anch’io sulla terra ho amato una volta, e molto, e intensamente amato pel solo diletto di amare.

Su queste parole della Immolata la gondola toccò terra. Il Virey offerse il braccio alla donna, e si inoltrò con essa nella galleria che metteva alla stanza del malato.

— Nessun sintomo allarmante? — chiese il medico entrando.

— Nessuno — rispose fratello Consolatore.

— Lasciamo con lui questa suora e ritiriamoci. Ciò che importa — soggiunse il medico volgendosi alla Immolata — è che quest’uomo creda in voi prima che siano trascorse due ore.

Tutti uscirono dalla stanza ad eccezione della donna.

Questa si appressò tremando al letto dell’infermo.

La luce melanconica della lampada azzurra, rischiarando il pallido volto, lo abbelliva di una tristezza funerea.

L’Immolata, al vedere quelle sembianze, potè a stento reprimere un grido.

Si gettò su quel corpo assiderato coll’impeto di una madre selvaggia che trova il proprio figlio ucciso da una serpe.

Le sue braccia, incrociandosi tra le chiome dell’infermo, sollevarono dai guanciali il capo estenuato; le