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criticato soltanto da que’ lettori, che non sentono la importanza delle leggi e de’ costumi, quando con avida curiosità leggono gl’intrighi passeggieri d’una Corte o l’accidental evento d’una battaglia.

Il virile orgoglio de’ Romani, contento della potenza effettiva, aveva lasciato alla vanità dell’Oriente la formalità e le ceremonie d’una fastosa grandezza1. Ma, quando essi perdettero anche l’ombra di quelle virtù, che nascevano dall’antica lor libertà, la semplicità dei costumi Romani restò insensibilmente corrotta dalla tumida affettazione delle Corti dell’Asia. Dal dispotismo degl’Imperatori abolite furono le distinzioni del merito e del carattere personale, che son tanto cospicue in una Repubblica, e così deboli ed oscure in una Monarchia; in luogo loro fu sostituita una severa subordinazione di gradi, e di uffizi, dagli schiavi titolati, che sedevano sugli scalini del trono, sino a’ più vili strumenti dell’arbitrario potere. Questa moltitudine di sudditi abbietti aveva interesse di assicurare l’attual governo dal timore d’una rivoluzione, che ad un tratto avrebbe potuto confonder le loro speranze, ed impedire il premio de’ lor servigi. In questa Divina Gerarchia (giacchè in tal modo essa è frequentemente chiamata) veniva indicato con la più scrupolosa esattezza ogni grado, e se ne spiegava la dignità con una quantità di frivole e solenni ceremonie, la cognizione delle quali richiedeva uno studio, ed era un sacrile-

  1. Scilicet externae superbiae sueto, non inerat notitia nostri (forse nostrae); apud quos vis imperii valet, inania transmittuntur. Tacit. Annal. XV. 31. Può vedersi la degradazione dallo stile di libertà e di semplicità a quello di formalità e di servitù nelle lettere di Cicerone, di Plinio e di Simmaco.