Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano V.djvu/37

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dell'impero romano cap. xxv. 33

ed incoerente mescolanza di tradimento e di magia, di veleno e di adulterio somministrava infiniti gradi di delitto e d’innocenza, di scusa e di aggravio, che in queste processure pare che fossero confusi dalle ardenti o corrotte passioni dei giudici. Essi facilmente s’accorsero, che tanto più si stimava dalla Corte Imperiale l’industria ed il discernimento loro, quanto maggiore era il numero delle esecuzioni che si facevano pe’ decreti dei respettivi loro Tribunali. Non senza un’estrema ripugnanza pronunziavano qualche sentenza d’assoluzione, ma con ardore ammettevano testimonianze anche macchiate da spergiuri ed estorte per via di tormenti a provare le più improbabili accuse contra le persone più rispettabili. Il progresso dell’inquisizione apriva sempre nuova materia di processi criminali; l’audace delatore, di cui si fosse scoperta la falsità, si ritirava impunemente; ma alla misera vittima, che palesava dei reali o supposti complici, rade volte accordavasi premio della sua infamia. Dall’estremità dell’Italia e dell’Asia erano tratti giovani e vecchi in catene ai tribunali di Roma e d’Antiochia. Senatori, Matrone e Filosofi spirarono in mezzo ad ignominiosi e crudeli tormenti. I soldati, destinati alla guardia delle prigioni, dichiararono con voci di compassione e di sdegno, che il loro numero non era sufficiente ad impedire la fuga o la resistenza della moltitudine dei prigionieri. Le famiglie più ricche erano rovinate dalle confiscazioni ed ammende; i più innocenti cittadini tremavano per la loro salute; e possiam formare qualche idea dell’estensione del male dalla stravagante asserzione d’un antico Scrittore, che nelle soggette Province i prigionieri, gli esuli