Pagina:Gibbon - Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano XI.djvu/349

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dell'impero romano cap. lviii 343

inventare le macchine che le possono agevolare, e di danaro per provvederle, e d’industria per prevalersene. Nella conquista di Nicea, eransi maravigliosamente giovati dell’erario e del sapere dell’Imperatore Alessio, e di questo possente soccorso mal teneano luogo nel secondo assedio, alcuni legni pisani e genovesi, che il commercio, o la religione traevano sulle coste della Sorìa. Penuriavasi di vettovaglie, incerti i modi di provvederle, difficili e pericolose le comunicazioni. Fosse trascuratezza, o impotenza, i Cristiani non aveano stretta per ogni lato la città, e due porte di essa, rimaste libere, assicuravano continuamente nuovi rinforzi e viveri alla guernigione. In sette mesi d’assedio, i Crociati videro pressochè distrutta la loro cavalleria, oltre ad uno sterminato numero di soldati, che le fatiche, la fame e le diffalte lor tolsero; nè intanto alcun considerabile progresso avevano fatto. E forse più lungo tempo incerto sarebbe stato l’esito di loro impresa, se lo scaltrito e ambizioso Boemondo, l’Ulisse de’ Latini, le armi dell’inganno e del tradimento non avesse operate. Antiochia racchiudeva molta mano di malcontenti Cristiani: fra quali Firuz, rinnegato della Sorìa, godendo il favor dell’Emiro aveva il comando di tre torri. Costui col farsi merito di un nuovo pentimento, nascose forse ai Latini, e a sè medesimo, l’obbrobrio della propria perfidia. Ragione di mutuo interesse avendo pertanto posti in segreta corrispondenza Firuz e il Principe di Taranto, Boemondo manifestò ai Duci assembrati in consiglio, come dipendesse da lui il farli entrare nella città, ma per prezzo del servigio, richiese la sovranità di Antiochia. Erano quelli a sì dure estremità che dovettero accettare