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è l’effetto dell’arte; e perciò si dá un’arte o civiltá falsa, che si dilunga dalla natura e in vece di svolgere le virtualitá native mira a distruggerle1. Quest’arte o civiltá contrannaturale è madre della falsa politica, sia di quella che va dietro a utopie impossibili o s’ingegna di preoccupare con progresso precipitoso le condizioni di un remoto avvenire, sia di quella che rinverte al passato e spegne i ragionevoli acquisti. Gli ordini di Vienna appartengono a questa seconda specie e, violando la natura non meno che la ragione, tanto fu lungi che riuscissero a quietare l’Europa, che anzi porsero esca e incentivo a nuovi e continui disordini. Il Rinnovamento sará all’incontro una riformazione del mondo civile a norma delle leggi naturali, e avrá per regola l’adagio morale del Portico, confermato dal cristianesimo2 che «si dee vivere secondo natura»3. Chi si conforma a natura è felice, chi le ripugna è misero; il che si verifica nei popoli e negli Stati non meno che nei particolari uomini e nelle famiglie. Le cose umane non sono stabili se non in quanto ritraggono della suprema stabilitá creata, cioè della natura; la quale, dice un nostro scrittore, «certa consiste, ferma e costante in ogni suo ordine e progresso; nulla suol variare, nulla uscire da sua imposta e ascritta legge»4. E la natura è stabile, perché rende finita immagine dell’ infinito artefice; il quale, se è primo motore in quanto dá l’essere e il moto alle cose, era chiamato «statore» dagli antichi romani, come nota Seneca5, perché



  1. La vera civiltá è pertanto il ritorno alla natura, non grezza ma svolta e raffinata dall’arte. Giacomo Leopardi, antimettendo lo stato selvaggio al civile, non discorre della civiltá vera ma della falsa, che chiama «corruzione» (Opere, t. i, p. 35; t. ii, pp. 73, 74, 75); onde la sua sentenza si distingue sostanzialmente da quella che Giangiacomo Rousseau mise in voga all’etá passata. Tal è almeno l’interpretazione che mi par risultare dal riscontro di vari luoghi, imperocché se il recanatese non avesse sentito altramente dal ginevrino, come avrebbe potuto scrivere la «civiltá» esser necessaria a «dirozzare e rammorbidire gli animi» per distoglierli dalle male opere (ibid., t. ii, p. 67), «e sola guidare in meglio i pubblici fati» (ibid., t. i, p. i2i).
  2. «Magistra natura, anima discipula» Tertull., De test, an., 5).
  3. Cic., De fin., Tusc., passim.
  4. Alberti, Opere volgari, Firenze, i845, t. iii, p. i69.
  5. De benef., iv, 7.