Pagina:Gioberti - Del rinnovamento civile d'Italia, vol. 3, 1912 - BEIC 1833665.djvu/162

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trasmoda, è incalzo incessante e pungolo a cose grandi, e impediva Cesare di riposarsi sugli allori di Munda e Alessandro su quelli dell’ Idaspe. Quindi è che, nell’atto medesimo di spregiare la gloria presente e preterita, i segnalati aspirano alla futura; il che pare una contraddizione e non è, avendo l’occhio al fine che si propose la natura, infondendo tale appetito nei petti umani. Imperocché, mirando ella a eccitare la virtú operatrice, saviamente provvide che la lode acquistata paia piccola, e quella che si spera, grandissima; e però la giustificazione della gloria risulta dalla sua critica.

Il favor popolare e la gloria sono cose differentissime. L’uno 1 mira al presente, l’altra all’avvenire; l’uno è caduco e passeggero, l’altra stabile e perpetua; l’uno si fonda nelle apparenze, l’altra nei meriti effettivi; l’uno nasce dal senso volgare della moltitudine, l’altra dal senso retto dei savi e per opera loro si dirama nell’opinione pubblica. Gli uomini grandi non aspirano alla prima specie di fama; e se l’ottengono, per lo piú proviene dalle parti cattive o mediocri che si trovano in ioro anzi che dalle eccellenti, come quelle che non soggiacciono all’apprensiva del volgo. Essa all’incontro diletta gli animi di tempra ordinaria, poco fatti al gusto dell’altra e inetti a conseguirla, e sovrattutto ai faziosi, ai quali par di toccare il cielo col dito se con mille industrie e fatiche giungono a imperiare nel giro angusto di una setta e si ridono di chi antipone ai vani plausi la lode degli avvenire. I valorosi bramano la gloria, il cui desiderio, dice Tacito, è «l’ultima vesta che lascino anche i filosofi» fi). E per ordinario

(i) Hist., iv, ó (traduzione del Davanzati). Egli è noto quanto Cicerone fosse vago di gloria, e la sua celebre epistola a Lucceio prova che in questa parte non era filosofo. Ma egli disprezzava l’aura volgare. «Fama et multitudinis iudicio moveatur, quum id honestum putant quod a plerisque taudatur. Te autem, si in oculis sis multitudinis, tamen eius iudicio stare nolim, nec quod illa putat, idem pittare pulcherrimum» (Tusc., Il, 26). «Mihi laudabiliora videntur omnia quae sine vendilatione et sitie populo teste fi uni» (tóid.). «An quidquam stu/tius qua/n quos singulos contemnas, eos esse aliquid palare universos ?» (ibid., v, 36). «Qui ex errore imperitae multitudinis pendei, hic in magnis viris non est habendus» {De off., i, ig). Leggasi inoltre ciò che egli dice del romor popolare nella seconda Sulla legge agraria (3, 4), e il bellissimo paragone che fa nelle Tusculane (in, 2) della vera gloria