Pagina:Gogol - Taras Bul'ba, traduzione di Nicola Festa, Mondadori, Milano, 1932.djvu/235

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TARAS BUL'BA

berrettino scuro; e nessuno, anche dei suoi intimi, avrebbe potuto riconoscerlo. A vederlo, gli si sarebbero dati non piú di trentacinque anni. Un vermiglio colore di buona salute illuminava le sue guance, e le stesse cicatrici gli davano un’aria imperiosa. L’abito, ornato d’oro, gli stava molto bene.

Le strade dormivano ancora. Non si mostrava ancora nella città neppure un garzone di bottega col paniere al braccio. Bul’ba e Jankelj giunsero a un edifizio che aveva la forma di un airone seduto. Era largo, basso, enorme, annerito e da un lato di esso si lanciava fuori, come un collo di cicogna, una torre lunga e stretta, sulla cui cima sporgeva un lembo di tetto. Quell’edifizio serviva a parecchi usi diversi: vi erano le caserme, le prigioni e perfino il tribunale penale. I nostri viandanti entrarono in una porta, e si trovarono nel mezzo di una sala spaziosa, o piuttosto, in un cortile coperto. Circa un migliaio di uomini vi dormivano tutti insieme. In fondo si apriva una porticina bassa, dinnanzi alla quale due sentinelle facevano tra loro, stando a sedere, un certo strano giuoco, il quale consisteva in questo, che l’una batteva all’altra con due dita un colpo sulla palma della mano. Esse prestarono poca attenzione ai so-


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