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66 parte prima

CAPITOLO XXIII.

Mio ricevimento nel corpo degli avvocati. — Mia presentazione al palazzo. — Dialogo tra una donna e me.

Arrivato a Venezia, dopo aver abbracciata mia madre e la zia, ch’erano nel colmo dell’allegrezza, andai a trovare il mio zio procuratore, e lo pregai di collocarmi presso un avvocato per istruirmi nel formulario che si tiene dalla curia. Mio zio, che era in grado di scegliere, mi raccomandò al signor Terzi, uno dei migliori avvocati ed abili consultori della Repubblica. Dovevo starvi due anni; ma vi entrai nel mese di ottobre 1731, e ne uscii, fatto già avvocato, nel mese di maggio 1732. Per quel che pare, si guardò soltanto la data dell’anno, e non quella dei mesi; sicchè adempii a tutte le formalità in otto mesi di tempo. In tutti i miei collocamenti però vi doveva esser sempre qualche cosa di straordinario, e quasi sempre, per dire il vero, a mio vantaggio. Ero nato felice; se non sono stato sempre tale, è colpa mia. In Venezia gli avvocati debbono avere le loro abitazioni, o almeno i loro studi nel quartiere ove resta la curia. Presi dunque a pigione un appartamento a San Paterniano, e mia madre con la zia non mi lasciarono. Vestii la toga conveniente al mio nuovo stato, ch’è come la patrizia: imbacuccai la testa in un’immensa parrucca, e con impazienza aspettai il giorno della mia presentazione al palazzo. Questa presentazione non si fa senza cerimonie. Il novizio deve aver due assistenti, che si chiamano a Venezia Compari di Palazzo. Gli cerca il giovane nel numero dei vecchi avvocati, che hanno per lui maggiore affezione: io scelsi il signor Uccelli ed il signor Roberti, ambedue miei vicini. Andai pertanto in mezzo dei miei due Compari a piè della grande scala nel gran cortile del palazzo, facendo per un’ora e mezzo tante riverenze e tanti scontorcimenti, che avevo rotto il dorso, e la mia parrucca era divenuta una giubba di leone. Ognuno che passava davanti a me diceva il suo parere sul conto mio: gli uni, ecco un giovine che ha buona indole; gli altri, ecco un nuovo scopatore del palazzo; questi mi abbracciavano, quelli mi ridevano in faccia. In somma salii la scala, e mandai il servitore a cercare una gondola, per non farmi vedere per strada arruffato com’ero, fissando per punto di riunione la sala del gran Consiglio, dove mi posi a sedere sopra un banco, e donde vedevo passar tutti senza esser veduto da alcuno. Facevo in questo tempo le mie riflessioni sopra lo stato ch’ero per abbracciare. In Venezia sono scritti al registro ordinariamente 240 avvocati; ve ne sono dieci o dodici di primo ordine, venti a un bel circa che occupano il secondo; tutti gli altri poi vanno a caccia dei clienti; e i procuratorelli fanno volentieri ad essi da cane da caccia, a condizione però di spartire insieme la preda. Ero in timore, essendo io l’ultimo arrivato, e mi dispiaceva di aver lasciato le Cancellerie. Vedevo però dall’altra parte che non vi era stato più lucroso e di maggiore estimazione, di quello dell’avvocato. Un nobile veneziano, un patrizio membro della Repubblica che sdegnerebbe esser negoziante, banchiere, notaro, medico, e professore di un’università, abbraccia la professione di avvocato, l’esercita al palazzo, e dà il nome di confratelli agli altri avvocati. Non ci vuol altro che sorte; perchè doveva io averne meno di un altro? Bisognava porsi al cimento, ed entrare senza timore nel caos