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capitolo xxx 85


mi manifesto per un uomo addetto al residente di Venezia. Apre allora i due battenti della porta, e mi riceve struggendosi in lacrime e nella massima desolazione.

Che spettacolo attraente e da far colpo! Una bella donna che piange ha certamente qualche diritto sopra un animo sensibile. Dividevo con lei le sue pene, facevo il possibile per porla in calma, ed il mio amico Carrara se la rideva. Che uomo duro! Come poteva egli ridere? Io era di cera, e mi inteneriva un momento più dell’altro. Giunsi finalmente ad asciugar le lagrime dell’amata mia compatriota ed a farla parlare. Era, per quello che mi disse, una fanciulla di buonissima casa di Venezia, divenuta amante di una persona di condizione superiore alla sua. Aveva concepita la speranza di farsene uno sposo; ma avendo trovato opposizioni da ogni parte, non vide altro scampo che quello di andare in paese straniero. Aveva fatto la sua confidenza ad uno zio materno che l’amava molto, e che ebbe la debolezza di secondarla. Si erano dati tutti e tre alla fuga, avevano preso la strada di Milano, ed erano passati per Crema. Furono inseguiti, e raggiunti in questa città! lo zio fu arrestato, e condotto in carcere, e i due amanti ebbero la fortuna di salvarsi. Arrivati a Milano di notte, avevano preso alloggio nell’osteria ove noi eravamo; il di lei amante era escito la mattina di buonissima ora per cercare un quartiere in città, ma non era più ritornato. Erano oramai tre giorni che la signorina si trovava sola e fuori di speranza di rivedere il suo rapitore, il suo indegno seduttore; e intanto le lacrime raddoppiate di questa languente bellezza compiono il racconto, ed eccitano al colmo la mia sensibilità. Carrara che non rideva più, ma era bensì irritato che la lunga nenia c’impedisse di merendare, mi fece riflessioni estremamente patetiche sopra il suo appetito. Il cuore non mi permetteva di lasciare la mia compatriotta senza fissar con lei qualche provvedimento. La pregai pertanto, per accontentare il ghiotto compagno, di permettermi di far portare la nostra merenda nella sua camera; ella vi acconsentì con buona maniera, e fummo serviti. Mentre eravamo a tavola io continuava il colloquio con la signorina, e Carrara mangiava sempre e si burlava di me. Incominciava a farsi sera e conveniva partire; presi pertanto congedo dalla mia bella compatriotta, le promisi di tornare a vederla il giorno dopo, ed augurandole affettuosamente la buona sera, la pregai di confidarmi il suo nome. Parve che su questo punto ella avesse qualche difficoltà; ma finalmente mi disse all’orecchio che si chiamava Margherita Biondi. Seppi dipoi, che ella non era nè Margherita, nè Biondi, nè nipote, nè fanciulla; ma era giovine, bella amabile, aveva l’aria civile, ed io era in buona fede. Potevo mai abbandonarla nel cordoglio e nell’afflizione? Nel ritorno alla città, bisognò sopportare tutte le beffe e corbellature di Carrara; ciò peraltro non m’impedì di mantener la parola alla bella forestiera. Le trovai un bellissimo appartamento tutto mobiliato e di buon’aria sulla piazza d’Armi, andai a desinar seco il giorno dopo, e la condussi in una buona carrozza a prender possesso del nuovo quartiere. Mi pregò di adoprarmi a favore di suo zio per farlo escire di prigione, di farne parola col residente di Venezia al suo ritorno in Milano, come pure d’indurre questo ministro ad aggiustare i di lei affari con i suoi genitori, nè seppi negarle nulla. Andavo a trovarla spessissimo, e la sua compagnia mi riesciva gradita un giorno più dell’altro. Ero contentissimo del mio stato, e quest’ultima avventura aumentava le delizie della mia condizione; ma io non era fatto per goder lungo tempo di una felicità,