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IL PRODIGO 267


Leandro. Mia cugina non vi ha esibito ancora la grazia sua.

Momolo. Caro sior cusina, faressi maggio de andar in portego.

Ottavio. Mia sorella è una donna, che sa distinguer chi merita.

Momolo. Bravo, sior fradelo; vu sè un omo de garbo. Quanto che pagarave, che fussi mio parente.

Ottavio. Questo potrebbe farsi col mezzo di mia sorella.

Momolo. Ah, cossa disela? (a Clarice)

Leandro. Non è questo il tempo per simili ragionamenti.

Momolo. Patron caro, mi no parlo con ela. (a Leandro)

Clarice. Dice bene mio cugino, voi parlate fuor di proposito.

Momolo. La gh’ha rason, la compatissa. Delle volte se parla senza che la mente gh’abbia tempo de pensarghe suso. La bocca xe un istrumento del corpo, un organo che se lassa mover dal cuor, ma le parole che vien dal cuor, le xe sempre le più sincere. Muemo discorso, la varda sto aneletto, sta quadriglia de brillantini: ghe piaselo? Cossa disela de sta chiarezza, de sta uguaglianza?

Clarice. L’anello è bellissimo. I brillanti sono eguali e perfetti.

Momolo. Saravela una temerità, se la pregasse de permetterme che....

Leandro. Alle donne civili non si offeriscono de’ regali.

Momolo. E i omeni civili no rompe le tavarnelle ai galantomeni.

Leandro. Che son queste tavarnelle? (alzandosi)

Momolo. A ela, patron, la ghe la spiega in volgar. (ad Ottavio)

Ottavio. Caro signor Leandro, voi siete troppo focoso. Siamo qui per godere la quiete e non per alterarci di tutto.

Leandro. Sono in compagnia di mia cugina, e non ho da permettere che si offenda il di lei decoro.

Clarice. In quanto a questo poi, per sostenere il mio decoro non ho bisogno d’aiuti. (s’alzano tutti)

Momolo. Bravissima.

Leandro. Bene, accomodatevi come volete. (in atto di partire)

Momolo. (El va). (da sè)

Clarice. Stimo la vostra amicizia, ma non per questo....

Leandro. E inutile che diciate di più. (parte sdegnato)

Momolo. (El xe andà). (da sè)