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310 ATTO TERZO


Momolo. Me son inzegnà de corrisponder in qualche maniera all'onor che i m’ha fatto.

Leandro. Vi rendiamo grazie, ma vogliamo partire.

Momolo. Per ela, patron, non ho fatto gnente, e xe superfluo che la me ringrazia. (a Leandro)

Clarice. Non volete andare adunque a far allestire il burchiello? (ad Ottavio)

Ottavio. Mi parerebbe di fare un torto ad un galantuomo, che fa di tutto per trattarci bene.

Momolo. Caro sior Ottavio, dasseno che ve son obligà.

Clarice. Ho inteso. Signor Leandro, favorite voi di ritrovare quegli uomini, che qui ci hanno condotto, e ordinate che si allestiscano al ritorno.

Leandro. Subito, signora. Sarete servita.

Momolo. Cospetto de bacco! se sior Leandro me farà sta scena, el me ne renderà conto.

Leandro. Io non penso, che ad obbedire la signora Clarice, e le vostre parole non le calcolo un fico.

Momolo. Siora Clarice xe patrona de tutto, ma con vu la discorreremo.

Leandro. Da me che pretendereste?

Momolo. Pretenderave che vu, sior scartozzo, me dessi soddisfazion.

Clarice. Mi maraviglio di voi, signor Momolo, che così parliate in faccia mia, con uno ch’è venuto meco, e che meco deve partire. Rispettate nel signor Leandro una persona ch' io stimo. Sì, a dispetto vostro, sappiatelo, se noi sapete, io stimo il signor Leandro, e lo credo degno della mia stima1 più di quello che siete voi. (Per mortificare il signor Momolo, abbia questo poco di bene Leandro). (da sè)

Momolo. Pazenzia! son sfortunà.

Leandro. Sentite? La signora Clarice mi onora della sua stima. Io sono degno della sua stima, e dietro alla stima non va lontano l'amore. Non m’ingannai nella mia speranza. Ecco il merito della servitù, della sofferenza. La verità si conosce alla fine. Grazie alla bontà della signora Clarice. Vado sollecito per obbedirvi. (parte)

  1. Zatta aggiunge: molto.