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320 ATTO PRIMO
Jacobbe. Poco non è, che grato siagli un consiglio audace;

Colui che non adula, quasi sempre dispiace.
Che importa a me che unita sia con milord madama?
Il mio cuor la rispetta, ma come lui non l’ama.
È ver che generosa mi soffre e mi soccorre,
Ma all’onestà non soglio l’interesse anteporre.
Povero quale io sono, dalle sventure oppresso,
Quando ognun mi abbandoni, sempre sarò lo stesso.
Stoico non son, non pongo nell’abbandon totale
Dei beni della vita la virtù principale.
Filosofia m’insegna che il mondo e i beni suoi,
Se inutili non sono, son creati per noi.
Nostro delle ricchezze, nostro de’ cibi è l’uso,
Niun che ha discrete voglie, è dal goderne escluso.
Ma chi da sorte è oppresso, chi senza colpa è afflitto,
Delle miserie a fronte dee mantenersi invitto,
Sicuro che i disastri, se vengono dal fato,
L’anima non si offende, il cuor non è macchiato;
E allora sol, che i danni l’uomo a soffrir non vale,
Rende maggior la pena, sente il dolor del male.
Ecco de’ studi miei, ecco il più dolce effetto:
Non ho i comodi in odio, non aborro il diletto.
Sento dell’uomo i pesi, l’onesto ben mi piace,
Ma incontro le sventure, e le sopporto in pace.
(si ritira dal libraio)

SCENA III.

Milord Wambert bevendo il thè, seduto sopra la panca.

Madama di Brindè discaccerò dal petto.

Se l’amor non conviene, le serberò il rispetto.
Ad onta del cuor mio, che mal di ciò si appaga,
Facile è sul principio rimarginar la piaga.
Il filosofo amico m’illuminò. Dovuti
Sarieno ad uomo tale di fortuna i tributi.