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L'AVARO 413


SCENA IX.

Don Ambrogio, poi il Cavaliere.

Ambrogio. La riverisco divotamente. Restituire? Me ne rido. Ho il mio procuratore, che è fatto apposta per tirar innanzi. Egli s’impegna di mantenere la lite in piedi, se occorre, dieci anni almeno, e in dieci anni posso morir io, e può morire la nuora. Per altro non ho piacere che si sparga per il paese, che io procuro che non si mariti, per non resrituire la dote. Da qui avanti mi regolerò un po’ meglio, troverò degli altri pretesti, e cercherò di sottrarmi con pulizia, con destrezza.

Cavaliere. Servitore del mio carissimo don Ambrogio. (ilare sempre)

Ambrogio. Padrone mio, signor Cavaliere garbato.

Cavaliere. Venite sempre più giovane. Mi consolo, quando vi vedo.

Ambrogio. Oh, quanto anch’io mio rallegro in vedervi! gioventù benedetta!

Cavaliere. Perchè non venite a favorirmi, a bevere la cioccolata da me?

Ambrogio. Vi voglio venire.

Cavaliere. E a pranzo ancora.

Ambrogio. E a pranzo ancora.

Cavaliere. (Lo conosco, conviene allettarlo). (da sè)

Ambrogio. (So quel che vuole. Non mi corbella). (da sè)

Cavaliere. Oh, quanto mi è rincresciuta la morte di vostro figlio.

Ambrogio. Obbligato. Non parliamo di melanconie.

Cavaliere. Parliamo di cose allegre. Quando vi rimaritate?

Ambrogio., Non sono fuori del caso.

Cavaliere. Animo, da bravo: ho un’occasione per voi la più bella del mondo. Eh! ci sono de’ quattrini non pochi.

Ambrogio. Oh io poi, se mi maritassi, la vorrei senza dote.

Cavaliere. Bravissimo: sono anch’io della stessa opinione. Se mi marito, non voglio niente. Le mogli che portano del danaro, pretendono comandare. No, no, soddisfare il genio, e non altro; una donna che piaccia, e non si cerchi di più.

Ambrogio. (Se dicesse da vero? ma non me ne fido). (da sè)