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500 ATTO QUARTO

SCENA IX.

La Marchesa Ippolita ed il Marchese Ferdinando.

Marchese. Non so da che provenga l’idea di quel furore,

Che l’anima a tal segno. (verso la Marchesa)
Marchesa. Vel dirò io, signore. (s’alza)
Egli è di sè medesimo sì poco innamorato,
Che freme, allor che dubita venir rimproverato.
Ma l’ambizion l’inganna; poichè, per far la scusa
D’una leggiera colpa, d’altra maggior si accusa.
Marchese. Spiacemi un tal incontro. Egli è smanioso, il veggio.
Marchesa. Lasciate ch’egli frema, che merita di peggio.
Marchese. Marchesa, chi d’un uomo parla con ciglio irato,
Fa credere che l’ami, o almen d’averlo amato.
Marchesa. Guardimi il ciel, che amasssi tal che fede non ha.
Marchese. Non l’amaste, e vi è nota di lui l’infedeltà?
Marchesa. Lo so ch’è un incostante, che nell’amar si stanca,
Perchè di ciò le prove vedute ho in donna Bianca.
Marchese. Si amano questi due?
Marchesa.   Si amavano dapprima.
Ma il Conte di una donna non merita la stima.
Marchese. Marchesa, voi ed io facciamo a nostra gloria,
Unendoli di nuovo, un’opra meritoria.
Marchesa. Che prendasi tal cura da me non isperate.
Marchese. E questa renitenza vuol dir che voi l’amate.
Marchesa. Ah, mi fareste dire dei spropositi tanti.
Marchese. Son l’impazienze ancora fra i segni degli amanti.
Marchesa. Marchese, tai discorsi vi prego di lasciarli.
Marchese. Si tratta di piacervi? Di ciò più non si parli.
In ciò solo mi resta, io parlovi sincero.
Un po’ di vanità d’aver dato nel vero.
Marchesa. È lunga.
Marchese.   Ho già finito. Passiamo ad altro articolo.
Sapete voi, che sono le vedove in pericolo?