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PAMELA MARITATA 167


lo ha condotto a precipitare i sospetti. Mi trovò con milord Artur a ragionar di mio padre. Questo povero vecchio, sul punto di riacquistare la libertà, trova difficoltata la grazia. Io lo raccomando a milord Artur, egli mi promette la sua assistenza; deggio partir di Londra con mio marito; gliene do parte con un viglietto. Ecco la lettera che mi accusa, ecco il processo delle mie colpe, ecco il fondamento della mia reità, ma dirò meglio, ecco il fondamento della mia innocenza. Scrivo a milord Artur: Voi sapete ch’io lascio in Londra la miglior parte di me medesima. Perdonimi il caro sposo, se preferisco un altro amore all’amor coniugale. Mio padre mi diè la vita; egli è la miglior parte di me medesima. Sì, dice bene la lettera: E mi consola soltanto la vostra bontà, in cui unicamente confido. Non ho altri da confidare, che nel mio caro sposo e in milord Artur; se il primo viene meco in campagna, resta l’altro in Londra per favorire mio padre; Artur è il solo, in cui unicamente confido. Non mi spiego più chiaramente scrivendo, per non affidare alla carta il segreto. Il concerto di questa mane fu intorno alla sospirata grazia, che mi lusingò di ottenere. Desiderai che mi portasse la lieta nuova alla contea di Lincoln, e mi lusingai che l’amor del mio caro sposo avesse accolto con tenerezza l’apportatore della mia perfetta felicità. L’errore che in questo foglio ho commesso, è averlo scritto senza parteciparlo al mio sposo. Da ciò nacquero i suoi sospetti. Ciò diè fomento alla maldicenza, e la combinazione degli accidenti mi fe’ comparire in divisa di rea. Di quest’unica colpa mi confesso, mi pento, ed al mio caro sposo chiedo umilmente perdono. Deh, quell’anima bella non mi creda indegna della sua tenerezza; non faccia un sì gran torto alla purità di quella fede che gli ho giurata, e che gli serberò fin ch’io viva. Se sono indegna dell’amor suo, me lo ritolga a suo grado, mi privi ancor della vita, ma non del dolce nome di sposa. Questo carattere, che mi onora, è indelebile nel mio cuore; non ho demerito, che far lo possa arrossire1 d’avermelo un dì concesso. I numi mi

  1. Ed. cit.: che vergognare si possa ecc.