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518 ATTO QUARTO
In una trista Corte è mal sicura.

Or questa Corte abbandonar vogl’io;
Condurrò meco la mia sposa, e in pace
Sotto l’antico mio tetto paterno
Passeremo felici i giorni nostri.
Leonzio. Lodo il consiglio e il vostro stato invidio.
Potessi anch’io dalle moleste cure
Della Corte sottrarmi. Ma può dirsi
A colui ch’una volta ivi s’inceppa:
“Lasciate ogni speranza, o voi ch’entrate”.
Ormondo. Ite, vi priego, a vostra figlia, ed essa
Disponete a partir. Dite a Matilde
Che in luogo andrem dove sarà signora
Di poca sì, ma di felice terra.
Leonzio. Quanto val più l’esser signor del poco,
Che suddito del molto! Andiamo, amico,
Andiamo uniti a rinvenir Matilde,
Che ben lieta sarà per tal novella.

SCENA II.

Riccardo con guardie dalla porta comune, e detti.

Riccardo. Signor, mi duole che de’ vostri lacci (ad Ormondo

Odioso ministro essere io deggia.
Il Re comanda che l’illustre spada
A me cediate, e che in prigion vi guidi.
Ormondo. A Ormondo questo?
Leonzio.   Al gener di Leonzio?
Riccardo. L’ordine io n’ebbi, ed eseguirlo1 è forza.
Ormondo. Qual delitto commisi? Ah giusto cielo!
Matilde forse è la cagion funesta,
Che colpevol mi rende? Oh Dio! Leonzio,
S’accresce il mio timor. Se cedo il ferro,

  1. Bett.: essequirlo.