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Il martire vendicato 135

un profumo d’oleandro e di pesce fritto, di carogna e di essenza di rose.

La nave che ci portava verso il Sud avrebbe sostato due giorni per rifornirsi. Si era approdati da un’ora: io pellegrinavo in quella babilonia col dottore di bordo, famigliare del luogo, tempra d’artista inespresso e di scettico argutissimo. Ci riposammo in un caffè egiziano, strano covo invaso dai venditori di bronzi cesellatî e di pelli lavorate, visitato a quando a quando da una capra o da un dromedario, infestato da prosseneti elogianti la merce ad alta voce, in tutte le lingue. Ero stanco e deluso; un liquore troppo forte dava la vertigine malinconica, non l’ebbrezza al mio cervello d’astemio. Passammo in un corridoio a grate di legno intrecciate di convolvuli, riuscimmo in un cortile interno e là fu la calma improvvisa. Era un patium moresco, ampio luminoso d’acque e di marmi; ricorreva intorno un colonnato a musaici, in mezzo era una vasca protetta da tre palme eccelse, sopra, teso come un velum quadrato, l’azzurro quasi nero del cielo d’Egitto. Presso la vasca un gruppo d’ufficiali europei, di mercanti parsi faceva corona ad un tappeto immenso e sul tappeto, fra una suonatrice nubiana e un flautista arabo, danzavano due mime.