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parte seconda - capitolo xii 307

a temere le perniciose condanne de’ giudizi del pubblico e di farla pensare con qualche dramma di prudenza per le vie della cordialitá, della ingenuitá, d’una chiara logica e delle possibili beneficenze.

Chiunque vorrá credere che un po’ troppo d’affetto, piú che la ragione, facesse nascere in me le accennate lusinghe, può farlo, condannarmi e ridermi in faccia, senza ch’io mi offenda.

La Ricci aveva un marito, buona persona e che prima di fare il comico aveva fatto il libraio.

Quell’arte aveva lasciato in lui una spezie di fanatismo letterario. Leggeva tutto il giorno e tutta la notte, e scriveva de’ grossi volumi da porre alle stampe, co’ quali diceva egli d’essere certo di fare un grosso guadagno e delle investite per sé ed eredi.

La sua indefessa faticosissima sterile applicazione lo alienava dalle cure domestiche, delle quali lasciava il peso e la direzione alla moglie, niente chiedendo per sé e niente badando alle sue scarpe rotte e alle sue calzette infangate, forse per imitare un filosofo.

I frutti delle sue enormi erudite vigilie erano una magrezza cadaverica e de’ sputi di sangue pettorali, che potevano terminare funestamente in una tisi, con pericolo di infettare la sua famiglia.

La moglie impetuosa lo sgridava ferocemente sulla di lui letteraria perniciosa sterile fissazione, e il marito con un’eroica superioritá commiscrava la di lei crassa ignoranza e proseguiva ad ammazzarsi per la via dell’erudizione.

Non so qual accidente o qual genio avesse conciliato quel matrimonio, ch’era in un grado sommo sproporzionato e contraddicente; pure ad onta di tutte le contese e le strida, pareva che nel fondo de’ loro cuori non si volessero del male, e i loro contrasti, interrotti da me con qualche facezia e che terminavano colle risa, mi servivano di trattenimento come una scena comica.

La povera Ricci aveva un marito, un figlio, una serva; era gravida, d’una sanitá non ferma e non robusta, ed era immersa