Pagina:Guerrazzi - L'asino, 1858, II.djvu/134

Da Wikisource.
132

non è, la fanciulla entrava in chiesa, e intinte le dita nella piletta con l’acqua santa segnavasi e poi si accostava all’altare. Sì signore, che fa quel ghigno da eretico scimunito alla verità del caso? Un Angiolo per virtù della santa messa era sceso dal cielo con un calderotto di colla adattata a rimettere il capo della ragazza al suo posto, dov’egli lo saldò con tanta bravura che dice la Cronaca — non si vedeva altro, tranne una tenuissima linea di vago colore, come sarebbe un sottilissimo filo d’oro intorno al collo. —

Frate Francesco da Durazzo torzone (questa avventura appartiene al Lisbonese), invece di attendere alla pignatta, va a messa: i gatti mangiano il desinare dei frati. Il padre priore lo sgrida; egli non potendo partirsi di cucina in grazia della obbedienza, sentito appena il campanello suonare alla elevazione, va in visibilio per l’agonia di contemplare l’ostia. Iddio, affinchè il torzone Francesco veda l’ostia e non lasci la pentola ai gatti, apre di schianto quattro grossissimi muri, che tanti la chiesa separavano dalla cucina e, consolato il desiderio del torzone Durazzo, torna ogni cosa in sesto.

A certo gentiluomo di Schiavonia (e questa è di Enea Silvio o vuoi Pio II) si cacciò addosso la smania d’impiccarsi: parendo allo schiavone, e gli parve bene, che giova