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342 Brani di vita

colline feconde, simili a curve procacità di donne giacenti: poi le valli verdi, dove, sotto le lunghe file dei pioppi lontani, s’indovinava la frescura delle acque chiare e, finalmente, nell’orizzonte luminoso la striscia violacea dell’Adriatico seminata di vele bianche, come se Venezia vivesse ancora e i capitani della Repubblica cercassero nuove vittorie sull’onda fedele, sposata dall’anello del Doge; e nella serenità del cielo, nel verde delle valli, nell’azzurro scintillante del mare, trionfava la gioia, palpitava la bellezza d’Italia.

Ma le torri brune dall’alto minacciavano qualche cosa e le cicale arrabbiate schernivano qualcuno.

Giunti alla città, ci parve di entrare in un sepolcro. Saettati dal meriggio, dormivano le cose e gli uomini nel mistero dell’ora asfissiante e, dietro le finestre chiuse, era il silenzio profondo dell’ultimo sonno. Però attraversata una via arroventata e deserta ove alcuni galli di bronzo ornavano come simbolo elegante le linee severe di un arco monumentale, dalla severa oscurità di una porta che sembra quella di una fortezza, entrammo nella vera Loreto, nel cuore e nella vita della città santa.

In una via stretta e non soleggiata, si distendono due lunghe fila di banchi e di bacheche piene di medaglie, di amuleti, di imagini, di rosari, di campanelle, di cembali, di pezzuole variopinte e di ciambelle coperte di mosche. Dietro ai banchi di questa fiera devota ciarlano le venditrici incatenando