Pagina:I versi latini di Giovanni del Virgilio e di Dante Alighieri, Venezia, 1845.djvu/99

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     105Fra l’erba molle del Trinacrio monte
     Posiam, di cui non avvi un più fecondo,
     Che a nutrir valga di succhi vitali
     In fra i Siculi monti, armenti e gregge.
     Eppur, sebbene i sassi Etnei posporre
     110Debbansi del Peloro al verde suolo,
     Pur il mio Mopso a visitare andrei,
     Qui lasciando la greggia, se la tema,
     Polifemo, di te non mel vietasse.

A. E Alfesibeo: Chi fia, che Polifemo
     115Non abborrisca? Ei che l’aperta bocca
     Tinger d’umano sangue à per costume,
     Già sin d’allor, che Galatea lo vide
     Dilacerar le viscere del suo
     Acide abbandonato, ed, oh infelice!,
     120Fuggir appena ella poteo: che forse
     D’amor la forza in lui potuto avrebbe,
     Mentre tutto bollia della spietata
     Rabbia d’ira cotanta? Ah! come mai?
     Se Acmenide medesmo inorridito
     125A veder solo l’operata strage
     Degli efferati socj del Ciclope,
     Valse appena a tener l’anima in petto?
     Ah no mia vita! io te ne priego, mai
     Tanta crudele voluttà ti punga
     130Che la Najade bella, e il piccol Reno
     Chiudano in seno questo capo illustre,
     Cui dall’eccelsa vergine apparecchia
     Lo sfrondator di lauro eterne fronde.