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82 TEOCRITO

O bianca Galatea, perché mai discacci chi t’ama,
piú che giovenca proterva, piú aspra dell’acino acerbo,
e qui ti rechi quando mi domina il sonno soave,
súbito lungi di qui te ne vai, quando il sonno mi lascia,
mi fuggi, come allorché bigio lupo la pecora vede?

M’innamorai, giovinetta, di te, quando prima venisti
qui con mia madre. Foglie volevi tagliar di giacinto
su la montagna: io guida vi fui per gli alpestri sentieri.
E da quel giorno, stare non posso, se ognor non ti veggo.

Bene lo so, perché, graziosa fanciulla, mi fuggi:
perché questo marchiano, questo unico ciglio villoso,
dall’uno all’altro orecchio a me sbarra tutta la fronte,
e sotto ho un occhio solo, e il naso sul labbro si schiaccia.

Pure, al pascolo guido, cosí come son, mille greggi,
ed il fior fiore del latte ne mungo, e lo bevo; e penuria
di cacio mai non ho, l’està né l’autunno; e neppure
quando l’inverno è al sommo: ne son colmi sempre i graticci.

Suonar so la zampogna cosí, come niun dei Ciclopi;
e te, soave pomo, cantando, e me insieme, trascorro
spesso tarde ore la notte. Per te, dieci ed una cervetta
nutro, che han tutte il collare, per te quattro cuccioli d’orsa.

Su, vieni dunque da me, ché avrai tutto questo, e non meno.
Lascia che il glauco mare s’avventi a la spiaggia! La notte
trascorrerai molto piú dolcemente, a me presso, ne l’antro:
chi preferir di buon grado vorrebbe i marosi del ponto?