Pagina:Il Baretti - Anno V, n. 1, Torino, 1924-1928.djvu/3

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il baretti Pag. 3


LA PAGINA REGIONALE


Gli scrittori delle Calabrie

La «Collezione di Studi meridionali» diretta da Umberto Zanotti-Bianco (Vallecchi-Firenze) sta per arricchirsi di una nuova notevole opera che è il Dizionario bio-bibliografico degli Scrittori delle Calabrie curato dal nostro collaboratore Vito G. Galati. Il Baretti, iniziando con questo numero la "Pagina della regione", è lieto di pubblicare come primizia la prefazione di Benedetto Croce e una parte dell’introduzione del Galati al primo volume dell’opera:

Chi, come il sottoscritto, stima che la poesia, la letteratura, la filosofia, l’alta scienza di un popolo siano rappresentate da un numero non grande di uomini, e che perciò le storie letterarie, filosofiche e scientifiche, che si posseggono, debbano essere, per così dire, «sfollate» per lasciare rifulgere solo quanto, nel dominio della verità e della bellezza, ha valore originale, insieme zelante fautore e promotore di dizionari bio-bibliografici, dove si raccolgano possibilmente le notizie di tutti gli scrittori, e di tutte le loro opere, buone, mediocri, cattive e pessime. E’ chiaro che quella desiderata semplificazione e purificazione delle storie del pensiero e della poesia richiede che, fuori di esse, si costituisca e si tenga in ordine e si accresca una sorta di archivio o di repertorio, al quale, da una parte, si possa attingere per le ricerche da compiere di natura speculativa e artistica, e, dall’altra, rimandare pei ragguagli di carattere estrinseco, che pure occorre conoscere. Correlativamente, la mancanza di siffatto sussidio, da una parte, restringe e impoverisce l’ambito delle anzidette ricerche e, dall’altra, spinge a ingombrare le storie filosofiche e letterarie di un materiale non solo inassimilabile ma anche non presentabile in modo adeguato in quel luogo. Quanto avrebbe guadagnato, per esempio, la Storia della letteratura italiana nell’Ottocento, composta con tante fatiche dal Mazzoni, se si fosse convertita francamente in un dizionario bio-bibliografico degli scrittori italiani di quel secolo! Nella sua forma presente, storta e bio-bibliografia vi danno immagine di quei due «tignosi all’ospedale» dei versi del Carducci, dei quali «l’un fastidisce l’altro dai finitimi letti».

Per queste ragioni, quando la benemerita Associazione del Mezzogiorno mi fece l’onore di domandare il mio parere sulle pubblicazioni da imprendere per illustrare le Calabrie, io le proposi l’opera di questo dizionario, di cui si pubblica ora il primo volume e che è condotto con devoto amore e diligenza dal Galati. Auguro che esso non si arresti alla prima o alle prime lettere, e non soccomba al fato delle simili opere dei Mazzucchelli o dei D’Afflitto. A stornare questo fato provvedano, in prima linea, i calabresi, amanti della loro terra, e le amministrazioni pubbliche calabresi, dando la mano alla mano che loro porge l’Associazione del Mezzogiorno.

Benedetto Croce.


Indeciso su la via da seguire (e sovra tutto esitante circa una efficacia adeguata al necessario impiego di energie per compilare un Dizionario bio-bibliografico di tutti gli scrittori calabresi, raggruppati con ordine alfabetico), allorché fui invitato a preparare questo lavoro, mi tornava assai spesso alla memoria — come un mònito e quasi una preventiva condanna — il severo giudizio di Francesco De Sanctis su la Storia della letteratura italiana di Cesare Cantù. «Compiuta la lettura, aveva detto il nostro maggior critico del secolo scorso, è difficile ti rimanga nell'animo qualcosa di netto e di chiaro, come ultima impressione ed ultimo risultato. Ti senti girar pel capo una confusa congerie di cose e di persone, e ti par proprio sii uscito da una torre di Babele o da un castello incantato, percorso con diletto, ma senza che te ne rimanga chiara ricordanza. Allora sei costretto a raccoglierti, a meditarvi sopra, a rifare tu il lavoro, se vuoi afferrarne il concetto e darne adeguato giudizio» (1). E sebbene il De Sanctis si riferisse ai giudizi del Cantù, sformati dal preconcetto moralistico, sovrappostovi nella valutazione delle cose letterarie, io dicevo a me stesso: — Che cosa resterà di un lavoro in cui non potrò neppure esercitare un qualsiasi giudizio, costretto a rintracciare le “fonti”, registrandole col criterio quasi meccanico del catalogatore? — Ma Benedetto Croce, con la chiarezza consueta, mi fece rilevare più che l’utilità, la necessità d’una opera siffatta, indispensabile por una revisione critica coscienziosa della cultura calabrese.

Ond’io mi posi con buona lena a questo lavoro, il quale, più che sollecitare l’orgoglio dello scrittore, lo rende strumento paziente di una esigenza, benché specifica della cultura calabrese, necessariamente connessa alla cultura nazionale.

Lavoro di propedeutica elementare, dunque, ad ogni critica: allestimento di materiali senza cui ogni edificio è privo di base e crolla al primo urto della storia. Con ciò non si vuol dire che la Calabria non abbia avuto i suoi storici e i suoi biografi, chè, in verità, troppi ne ha avuti, ma non ha avuto lo storico nel senso che deve darsi a questa parola, che suona severa ed alta nella mente d’ogni studioso. Dal vecchio Barrio, che non si ricorda senza commozione por la sua affettuosa sollecitudine di pellegrino attraverso la regione, all’appassionato Accattatis, che intese chiamare a raccolta « i fratelli di Calabria non ignavi ne ignobili eredi della fede e della sapienza degli Avi», si è quasi costantemente mantenuto acceso l’amore per il focolare calabrese o per le sue tradizioni: ma, forse, anzi certamente, quell’amore ha traboccato, quelle tradizioni sono state ingrandite o rimpicciolite a seconda dei criteri e delle passioni, che agitavano e storici e biografi onde è generalmente mancato quel veder sereno, propriamente storico, che, se toglie impeto allo scrittore, gli dà la sicurezza di aver cercato la verità e l’orgoglio di averla dichiarata. Così che, se non rimprovereremo quegli scrittori di Calabria per averla troppo amata ed esaltata almeno nei libri, non possiamo tuttavia plaudire alle conseguenze prodotte dalle loro opere in mezzo agli studiosi calabresi e non calabresi, giacchè la loro voce, o è stata inascoltata e derisa, o — ciò che è avvenuto più spesso — riecheggiata senza controllo critico, salvo alcuni casi di indagini accurate, che è giustizia riconoscere, ma anche individuare. In generale, oggi stesso si mantiene vivo — specie tra gli scrittori della regione — il criterio elogistico, delle «glorie» di casa; e assai di rado si guarda con benefica crudeltà la storia della cultura calabrese, che, come in ogni luogo, è frutto di pochi uomini di genio, di un forte gruppo di buoni operai della mente e di una moltitudine di mediocri scarsi poeti (più spesso, e quasi in linea ininterrotta, latini), e numerosissimi ciarlatani versificatori; alcuni filosofi di marca autentica, e una sequela di sciocchi sofisti impasticciati di casistica, sterili rimasticatori di precettistica stantia; sicchè, in ogni nuovo critico, tu scopri un esalatore, che vuol vedere e far vedere quel che non c’è, sicuro del fatto suo in apparenza, ma in realtà traballante su un terreno che frana d’ogni parte. D’altro canto, i più ritornano nel campo coltivato da altri, non per spazzarlo dalle erbacce e rifecondarlo, ma per la facilità di ricucinare gli stessi argomenti, ritinti da secoli in tutte le salse inacidite dall’uso; ed è infrequente il caso di scrittori, che s’inoltrino nella vergine selva del pensiero calabrese per sfrondare un albero senza frutto, riformare una verità, fissare una data dibattuta. Molti — senza le necessarie ricerche e fondandosi su pochi libri — pretendono di far opera critica e bibliografica generale, di abbracciar tutto, dal principio del mondo al loro fortunato avvento. Altri si dilettano beatamente a porre in cima all’edificio della storia universale, e specialmente calabrese, la propria città, il proprio borgo la propria famiglia, con quei risultati che nelle ricerche storiche dà inevitabilmente la tesi fatta, la causa da patrocinare. Tutti mali inerenti a una formazione mentale non ancora ascesa alla limpida visione della funzione dello storico, anche il più umile; ma, a mio modo di vedere, specialmente derivanti da una profonda lacuna culturale.

La fonte cui attingono gli scrittori ogni qualvolta si occupano della Calabria, non può differire da quella che storici e biografi speciali, cioè calabresi, hanno formata; e se essa è ineguale — qui torbida, là navigabile, ora secca, più oltro troppo gonfia e piena di insidie — , ben pochi vi possono attingere con sapiente discernimento, onde i più, vedendosi affondare, preferiscono salire nel cielo della fantasia, tambureggiando a tutta foga. E' ovvio che le opere «generali» (di storia civile o etico-politica, di letteratura, di filosofia, ecc.), che sono di più facile consultazione, non possono ovviare a questa deficienza, limitandosi ad un cammino per sommi capi, e facendovi entrare la Calabria nei punti obbligati: d’altronde anch’esse risentono i danni della incertezza delle fonti della cultura regionale (2), e ripetono, di secolo in secolo, errori iniziali, trascurano elementi importanti, senza sollecitare la scoperta del nuovo o l’accertamento del vecchio. Non si esclude che un’opera di dissodamento si sia iniziata dal secolo passato per la storia calabrese (3), anche se si debba constatare non senza rammarico (in cui, forse, può includersi l’orgoglio del «natio loco» ricercato da altri) che è stato un francese, il Lenormant, a dare una opera, per quanto incompleta e non priva di errori, fondamentale su la Magna Grecia (4). Ma, ripeto, il lavoro che si è fatto è ancora iniziale, non colma la deplorata lacuna delle «fonti», se mai dove spronare a nuove ricerche per disegnare con sicurezza la storia della Calabria.

Questo lavoro intende appunto contribuire alla indagine delle «fonti» della cultura calabrese, che è come dire ricercare in gran parte anche le fonti della sua storia nei significati più complessi e specifici. I criteri, che ho seguiti, sono gli stessi di ogni buon metodo storico. Ho escluso qualsiasi giudizio su gli scrittori (salvo i casi in cui non era possibile lasciare una lacuna), non solo por evitare che l’opera assumesse una ampiezza, che avrebbe richiesto molti anni di lavoro e troppi volumi, ma anche perchè non è possibile che un solo studioso pretenda di fare contemporaneamente il filosofo e l’esteta, il giurista e il naturalista, e così via di seguito, senza cadere nel più banale superficialismo pretenzioso e ridicolo. Oltre a ciò, un’altra ragione fondamentale m’impediva di seguire il metodo dogli enciclopedici, vale a dire la ferma convinzione che l’opera critica sarà, presto o tardi, il frutto di questo lavoro di ricerca, che, spianando la via con l’indicazione delle fonti, e offrendo la possibilità di raggruppamenti per materie, per periodi, per caratteri di individui, ecc., invoglierà anche altri studiosi a quella ricostruzione storica accurata della cultura calabrese, che sino ad oggi non esiste. Per tanto mi sono attenuto al criterio di riassumere criticamente i dati della vita di ciascun scrittore e — criticamente dov’era il caso — di fornire una bibliografia possibilmente esauriente. Ma, per facilitare ancora il compito degli studiosi, ho voluto descrivere secondo il metodo bibliografico seguito nei cataloghi, tutte le opere degli autori, che mi è stato possibile esaminare; per modo che si possa distinguere l’opuscolo dal volume, e, di conseguenza, il lavoro — se non addirittura il valore — dello scrittore. Cómpito assai facile a spiegare, ma ben duro a realizzare, non soltanto per il tempo necessario e la pazienza dell’esame, ma altresì per la difficoltà di trovare le opere degli scrittori calabresi.

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(1) Cfr. Una storia della Letteratura Italiana. Nota letta dal socio FRANCESCO DE SANCTIS. In Rendiconto delle torn. dei lav. della R. Accad. di Scienze Mor. e Pol., A. IV. Napoli, Stamp. R. Università, 1865. Ora anche nei Saggi critici.

(2) Il caso di Michelangelo Schipa, «che l'intera vita ha consacrata a illustrare la storia del Mezzogiorno d'Italia» — per ripetere le partile con cui B. Croce gli indirizzò la sua Storia del Regno di Napoli (Bari, Laterza, 1925) — , e quello del Croce medesimo, per essere quasi isolati, non negano, non avvalorano questo giudizio.

(8) Francesco Fiorentino mirò a dare un nuovo orientamento, saggiamente critico, agli studi su la cultura calabrese; ma il suo forte studio su Bernardino Telesio (1872-4) resta ancora un tentativo di revisione, che non produsse seguaci, e che, d’altronde, in molti punti bisogna riformare e sviluppare con nuove ricerche, e in altri rettificare.

(4) LENORMANT FRANÇOIS. La Grande-Grèce. Paysages et histoire, Paris, A. Lévy, 1881-84, t. 3. Dopo la morte del I... vennero pubblic. due altri voll. che non sono altezza dei tre primi.

Cose d’arte in Piemonte


La cappella del Santo Sepolcro In S. Giovanni di Saluzzo


Il nostro dimenticato vecchio Piemonte non è cosi spoglio di grazie artistiche, nè visse sempre nell’oblio del bello. Tutti sappiamo le ragioni per cui poco propizia fu la nostra regione al Mecenatismo, e quali cure abbian distratto dal culto dell’arte i suoi uomini, ma vi è pure qualche cantuccio, non certo inaccessibile, in cui anche da noi, chi ama l’arte può sognare coi secoli passati la venustà d’allora.

Uno di questi cantucci è certo la città dei Marchesi di Saluzzo, ove degna particolarmente di nota è la Cappella del S. Sepolcro in San Giovanni. Nel 1472, a parere del Muletti, nel 1473-74, sfondo il Lobetti Bodoni, ebbero inizio i lavori per il coro aggiunto in fondo all’abside doliti Chiesa preesistente.

La Cappella nella sua dolcissima grazia gotica è un gioiello d’arte; ammantata del grigio verdognolo del calcare tratto dalle antiche cave saluzzesi, lavorata col più fine gusto offre a chi s’abbandona un’impressione leggiadra di snellezza commossa per quel suo ricco e squisito ricamo di elegante decorazione.

Due grandi nicchie si aprono l’una a destra l’altra a sinistra; sotto la nicchia sinistra è il Mausoleo di Ludovico II; la nicchia destra doveva accogliere i resti di Margherita di Foix, che è invece, come si sa, sepolta lontana in terra di Spagna. A destra verso il centro sta la nicchietta dell’acqua Santa ed a sinistra «l’armadietto della Spina»; dall’una e dall’altra pare le due porticine laterali.

Quattro trifore buttano tutt’attorno la loro festa di luce attenuata dai riflessi colorati dei vetri delle due trifore centrali. Questi vetri furono aggiunti dai frati molto tardi, tra il 1880 e l’86.

E fregi, fregi, linee agili e sottili ornano il coro, fiori non visti mai se non nei sogni, che l’artista ha immaginato nel suo desiderio di trascendenza.

La bolla linea gotica, calligrafica nel suo sviluppo pieno, colla sua grazia, in morbide volute si volge leggermente ad adornare la cappella, cinge in alto la nicchia, sotto cui si raccoglie la statua di Ludovico II, poi ad arco leggiadramente spicca libera il volo dall’uno o dall’altro lato e va a congiungersi in alto con un rosone. Frena ed attenua quest’agilissima libertà di ascesa il fregio orizzontale su cui poggiano in piccole nicchie apposite, le statuette degli Apostoli.

Ed ecco forse già in questo attenuare lo slancio un primo presentimento di rinascenza. E la statua fregiata della severità austera d’una composta rinascenza ha forma schematica e, nella sua rigidezza, espressiva; è attribuita a Benedetto Briosco, il marmorum sculptor, compare di Leonardo da Vinci. Le pieghe diritte e precise danno una compostezza un po’ severa alla figura tagliata a tratti incisivi e forti. In basso sul sarcofago sono le immancabili sette virtù. Le cariatidi laterali hanno tratti precisi e caratteristici. La nicchia per l’Acqua Santa, le porticine laterali, tutto è curato con lungo amore, ogni ritaglio fu caro al cuore dell’artefice che incise con cura nell’umile slancio della sua adorazione.

Ho detto linea gotica e rinascenza? Ecco ciò che spiaceva al Lobetti, che non avrebbe voluto vedervi questa statua. Anch’io quando notai questo passaggio, sostai perplessa diffidando del primo impulso entusiastico. Ma poi osservando ancora quella linea che cinge la nicchia della statua, vidi che domina sui tocchi che il nuovo gusto della rinascenza pose qua e là nell’interno della cappella, osservando quella linea bella anche se un pochino adorna, dovetti convenire che non c’è una sovrapposizione di stile pesante e di cattivo gusto. C’è piuttosto fusione di elementi: e non è illogico credere, che un solo artista, sia pure Benedetto Briosco abbia presieduto ai lavori della Cappella e cioè ne abbia diretto ed immaginato il tutto organico coll’ultimo tocco d’insieme.

Che alcuni particolari fossero già in attuazione prima che incominciassero i lavori, cioè prima del 1474 lo vediamo dall’atto di Ludovico I in data 27 ottobre 1474, che il Lobetti Bodoni riporta nella sua nota monografia sulla Cappella. In questo documento il Marchese «comanda e stabilisce che nella Cappella si collochino lo opere in pietra già scolpite da diversi anni addietro e quelle altre che scolpir si dovranno sino a completare tutta e in tutte le sue parti l’opera».

Se dunque è immaginoso pensare, che un artista solo abbia potuto ideare le rispettive parti, non mi pare come pare al Lobetti immaginoso credere che l’artista possa averne sentito il nesso sintetico.

Siano pure due o più gli artefici, uno, quello che disse del poema l’ultima parola, ha sentito nella sua unità la Cappella, e come nel protendersi del suo animo entusiasta, limpida chiara e spontanea formulò questa sintesi, così la espresse nell’opera d’arte che noi ammiriamo. Per me certo vi fu chi diede il tocco d’insieme a questo lavoro. E forse non è estraneo, a questa visione d’insieme quel tono grigio scuro che in primo piano raccoglie circondandolo il bianco della statua di cui limita ed attenua la forma.

Per me quella statua è bella, bella nella sua compostezza di prima Rinascenza e nella sua cornice di gusto gotico; come è bella quella cornice gotica anche se cinge una statua della rinascenza, perchè nel trascendere dalla realtà un artista ha trovato in forme sue una espressione sua, una sua realtà, questa espressione, questa realtà.

F. G.

L’Alfieri a Torino

In Torino ebbi alcuni piaceri, e alcuni più dispiaceri. Il rivedere gli amici della prima gioventù, ed i luoghi che primi si son conosciuti, ed ogni pianta, ogni sasso; insomma ogni oggetto di quelle idee o passioni primitive, ell'è dolcissima cosa. Per altra parte poi, l’avere io ritrovati non pochi di quei compagnoni d’adolescenza, i quali vedendomi ora venire per una via, di quanto potevan più lontano mi scantonavano; ovvero, presi alle strette, gelidamente appena mi salutavano, od anche voltavano il viso altrove; gente, a cui io non avea fatto mai nulla, se non so amicizia e cordialità: questo mi amareggiò non poco; e più mi avrebbe amareggiato, se gli uni mi trattavan così perchè io avevo scritto tragedie; gli altri, perchè avea viaggiato tanto: gli altri, perchè io ora era ricomparito in paese con troppi cavalli: piccolezze insomma, scusabili però, e scusabilissime presso chiunque conosce l’uomo, esaminando imparzialmente se stesso; ma cose da scansarsi por quanto è possibile, col non abitare fra i suoi nazionali, allorchè non si suol fare quel che essi fanno o non fanno; allorchè il paese è piccolo, ed oziosi gli abitanti; e allorché finalmente si è venuto ad offonderli involontariamente, anche col solo tentare di farsi da più di loro, qualunque sia il genere e il modo, in cui l’uomo abbia tentato la cosa.


(Da La Vita - Epoca IV, cap. XIII).