Pagina:Il Buddha, Confucio e Lao-Tse.djvu/564

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parte seconda 487

levano la mortificazione della carne, la rinunzia ai piaceri del mondo, la morte della passione e del sentimento, non eccita l’uomo ad abbandonare il consorzio civile, e a condurre vita d’anacoreta. Lao-tse prima di tutto è cinese; e un cinese non sa concepir l’uomo fuor della società; non sa escogitare una dottrina che lo separi affatto da essa. Perciò il nostro filosofo tratta anch’egli, nel suo libro, del governo e del principe; e non c’è nulla di più stravagante che l’applicazione del suo quietismo alla politica, l’ideale della quale è pur esso il non-operare.

Vediamo or dunque che cosa egli dice a questo proposito. — «L’inazione è il mezzo di mantenersi al governo dello Stato». E il commentatore spiega: «Quando il principe osserva strettamente il precetto che lo esorta al non-operare, non mette fuori soverchio numero di Leggi, e il popolo vive in pace, e gli è affezionato; quando invece l’amministrazione della cosa pubblica, per soverchia attività de’ reggitori, diviene importuna e molesta, allora i popoli prendono in odio il sovrano, e gli si ribellano».1 Il testo poi continua: «Quanto più il sovrano dà fuori leggi, e gride, e ordinazioni, tanto più il popolo cadrà in miseria. Quanto più si darà al popolo mezzi di guadagno, tanto più cresceranno le discordie nello Stato. Quanto più il popolo sarà abile e ingegnoso, tanto più si faranno cose inutili e bizzarre. Quanto più si porterà la legge a conoscenza della gente, tanto più aumenterà in essa il desiderio di rubare. Per la


  1. Questo stesso concetto è ripetuto anche in altro capitolo. «Quando il governo è amministrato con liberalità e indulgenza, il popolo gode vita quieta e agiata; ma quando l’amministrazione è minuziosa, prolissa e molesta, il popolo impicciato a ogni passo non può nemmeno guadagnarsi onestamente la vita». Ibidem, cap. lviii, commento.