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IL BUON CUORE 143


con ironia schiacciante, la durezza oscura della gigantesca massa che sta a base della fortezza: è la prima, originale base romana dell’edificio, quella che poggiava segnando un quadrato vastissimo, sulle celle funebri del sepolcro imperiale: su questo colosso quadrato si leva poi la torre conica del mausoleo, carica di marmi bianchi, di bronzi battuti, di piante ornamentali. Adriano imperatore aveva voluto che sulle sue spoglie, la maestà funeraria degli egizi venisse congiunta al fasto romano e alla eleganza ellenica: la tomba di lui, immota e vigile presso il Tevere d’oro avrebbe dovuto salutare i pieni meriggi del sole e il sole nel trionfo del meriggio avrebbe dovuto trafiggere le viscere della mole, salutando, attraverso uno spiraglio aperto a mezzogiorno, il porfido sacro alle ceneri dell’Elio diletto.

Tale il sereno sogno funereo cantato sulle sponde tiberine da un pallido poeta coronato: ma ben diversi i destini segnati dalla storia, invece: e voi che uscendo dalla mostra del costume proseguite, a destra, sul torrino di San Luca, sul cerchio laterale della merlatura, riguardando l’ambulacro angusto che vi sta sotto, misurando il diritto profilo della mole che vi si scopre, tutta contro il cielo, vedete da quanto assidua violenza venne mai quel sogno abbattuto. La base quadrata, spezzata sugli angoli ridotta a fasciare in cerchio la torre forte, vi appare come sbalzata su sasso vivo; e sul rudero si protendono timidamente, levandosi su dal suolo, fra i rottami e i frammenti marmorei raccolti nell’ambulacro, esili rami di rose rampichine e d’edera sempre verde: fiori di pace teneri ancora e timidi, fiori di sepolcro imperiale che una singolare furia d’eventi dovette, tante volte, recidere, nei secoli.

Non c’è, infatti, monumento romano che abbia adempiuto a fato più tragico: le vicende di questo mausoleo destinato al riposo di un imperatore amico della pace sono segnate, tutte, invariabilmente ed indelebilmente da un suggello di sangue. Da quando, in pieno terzo secolo Aureliano lo comprese nella cinta delle mura romane, il ritmo drammatico della storia più singolarmente drammatica dell’Universo — la storia di Roma — palpitò sempre su questo castello che di tomba fu tramutato in ferreo cuore della città.

Vitige lo fa assalire da un esercito colossale di Goti: e Romani e Greci difendono il presidio bellissimo, e nell’ardore della difesa spezzano le statue bianche, distaccano i marmi; strappano i festoni di bronzo e li gettano, scagliando, rovinando, sui nemici.

È la consacrazione civile del sepolcro di Adriano: la tomba spogliata da disperata furia fraterna diviene fortezza: e Leone IV la fa un caposaldo della munita città leonina.

E questo fato tragico rende davvero singolare la storia di Castel Sant’Angelo; la sua marmorea bellezza non tanto appare disfatta dalle sapienti demolizioni di quei Barberini che spogliavano pacificamente i monumenti vecchi per vestire i nuovissimi; essa cozza e cede innanzi alla violenza tragica; è dopo una disfatta che molte delle lastre marmoree ancora superstiti vengono piantate a terra, a lastricare le piazze di Roma; è un evento tragico che seppellisce nel Tevere una
delle vetuste iscrizioni sepolcrali: fissata, forse, sul parapetto essa precipitò, con centinaia di romani, quando il ponte si sfasciò sotto il peso di una folla immensa reduce da San Pietro, da una festa solenne di Nicolò V e le colonne di marmo frigio, una delle poche cose che sembrarono destinate a sopravvivere nella pace religiosa della basilica di San Paolo, vennero anch’esse raggiunte e spezzate dallo spavento del grande incendio del ’25

La fortezza di Roma, cuore di ferro e corona d’acciaio, sostiene violenze d’odio e predilezioni di signori: Marozia, i Crescenzi, i Frangipane, gli Orsini, se la disputano, la bestemmiano, l’adornano, in una strana vicenda di conquista, di possedimento, di spogliazione, padroni e assalitori, sconfitti e vittoriosi. Bonifacio IX affida a Lamberto di Piero d’Arezzo l’opera di fortificazione che il Sangallo cingerà di una seconda cinta quadrilatera.

Se proseguite sugli spalti della muraglia, sulla fronte del Castello, l’ambulacro merlato, lunghissimo, si corona di una visione mirabile: la vicenda dei merli robusti sembra spezzarsi innanzi alla cupola di San Pietro: soffermatevi; è una delle poche visioni ancora genuinamente storiche di Castel Sant’Angelo: l’ambulacro merlato, il miracolo di Michelangelo, il cielo di Roma: non vedete altro: e da quattro secoli questa visione resta intatta così.

Ma sulla rampa diametrale, la maggiore arteria della mole, non giunge dolcezza di cieli: lunga, ampia, colossale ha tutte le ombre e tutte le asprezze della guerra: di fragori d’armi e rombi di cannoni doveva echeggiare magnificamente la vasta cella sepolcrale che spezza la rampa e segna il cuore del castello: in alto il pertugio sottile che la tradizione vuole sacro al saluto del sole di mezzogiorno; la rampa piega a sinistra sempre immersa nell’ombra; giorni sono un lume fioco vegliava accanto ad una porta ferrata, la prigione di Cagliostro: è una evocazione di tristezza, sul muto e forte colosso armato. Una grigia e squallida casa di terrori, una torre di Londra, una Bastiglia romana?

Ma entrate nel Cortile delle Palle; un angelo bianco, dalle lidee dure, impugnante militarmente una spada, domina il semicerchio del cortile e le piccole piramidi di proiettili di pietra; a destra s’apre in giro al visitatore una serie di sale; un bottega di barbiere causidico, una farmacia, una esposizione di oggetti chirurgici, di ex voto; le asprezze della torre forte e munita si inteneriscono di rievocazioni di vita e d’arte. Passate oltre; ecco il cortile di Alessandro VI, anch’esso in semicerchio; ma ogni traccia d’armi e d’armati è scomparsa; il fianco del castello s’ingentilisce di sagome, di linee marmoree, le pareti del cortile lasciano sorprendere, sotto l’intonaco, una vicenda di immagini muliebri, profilate: nel recinto elegantissimo, si rappresenteranno i Suppositi, quest’anno, e la piccola corte di questo castello di guerra saprà essere, al convegno d’arte, un ospizio di grazia squisita.

(Continua). Egilberto Martire.