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allora dal bagno. La figura di lei, in fatti, tornava nella memoria di Andrea specialmente con un’attitudine: con i capelli in parte sciolti sul collo e raccolti in parte al sommo del capo da un pettine fatto di greche d’oro; con l’iride delli occhi natante nel bianco, come una viola pallida nel latte; con la bocca aperta, rorida, tutta illuminata da’ denti ridenti nel sangue roseo delle gengive; all’ombra delle cortine che diffondevano sul letto un albore tra glauco ed argenteo, simile alla luce d’un antro marittimo.

Ma il cinguettio melodioso di Conny Landbrooke era passato su l’animo di Andrea come una di quelle musiche leggere che lascian per qualche tempo nella mente un ritornello. Più d’una volta ella gli aveva detto, in qualche sua malinconia vespertina, con li occhi velati di lacrime: “I know you love me not...„ Egli, infatti, non l’amava, non n’era pago. Il suo ideale muliebre era men nordico. Idealmente, egli si sentiva attratto da una di quelle cortigiane del secolo XVI che sembrano portar sul volto non so qual velo magico, non so qual transparente maschera incantata, direi quasi un oscuro fascino notturno, il divino orrore della Notte.

Incontrando la duchessa di Scerni, Donna Elena Muti, egli pensò: “Ecco la mia donna.„ Tutto il suo essere ebbe una sollevazione di gioia, nel presentimento del possesso.

Fu il primo incontro in casa della marchesa d’Ateleta. Questa cugina d’Andrea nel palazzo Roccagiovine aveva saloni molto frequentati. Ella attraeva specialmente per la sua arguta giocondità, per la libertà de’ suoi motti, per il