Pagina:Il tesoro.djvu/289

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vano la testa, stanchi e smorti, addormentati per sempre nella pace pesante della strana sera: e nelle foglie vibrava un riflesso duro di rame e di polvere; e nelle cascate di verzura una fiamma invisibile aveva accartocciato le foglioline, trapuntandole e miniandole di bronzo.

Le rondini si posavano mute in cima alle canne secche, guardavano in alto quasi paurose d’interrompere il grave silenzio del pesante crepuscolo, poi sparivano volteggiando, col grigio petto inargentato dall’ardente riflesso dell’occidente.

Singhiozzi aridi e spasmodici le stringevano la gola; fuggì via dal giardinetto, e sospinta dalla sua fatalità, girò per la casa, finchè entrò nel salottino. Era l’ultimo crepuscolo, e una rossa luce suggestiva moriva lentamente sulle pareti.

Egli guardava sempre verso la porta, quasi, aspettando ansiosamente l’entrata d’Elena; e nell’aprire la porta, per un rapido riflesso di luce che balenò vivido sul raso bianco del portaritratti, ella scorse subito gli occhi di lui, che risplendevano come pieni di lagrime.

Attratta irresistibilmente si avvicinò, ricordando con acuta angoscia i fiori di cui sempre l’aveva circondato, e chiedendosi ancora s’egli li meritava; una verbena appassita, d’un rosso offuscato, pendeva ancora davanti al ritratto: ella sollevò lentamente gli occhi, e lo guardò, e nell’ultima luce di quel giorno doloroso le parve di