Pagina:Iliade (Monti).djvu/533

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200 iliade v.221

Di Príamo speri un dì stender lo scettro?
Ma s’egli avvegna ancor che tu m’uccida,
Ei non porrallo alle tue mani, ei padre
Di più figli, e d’età sano e di mente:
O forse i Teucri, se mi metti a morte,225
Un eletto poder bello di viti
Ti statuiro e di fecondi solchi?
Ma dura impresa t’assumesti, io spero;
Ch’altra volta, mi par, ti pose in fuga
Questa mia lancia. Non rammenti il giorno230
Che soletto ti colsi, e con veloce
Corso dall’Ida ti cacciai lontano
Dalle tue mandre? Tu volavi, e, mai
Non volgendo la fronte, entro Lirnesso
Ti riparasti. Col favore io poi235
Di Giove e Palla la città distrussi,
E ne predai le donne, e tolta loro
La cara libertà, meco le trassi.
Gli Dei quel giorno ti scampâr; non oggi
Lo faranno, cred’io, come t’avvisi.240
Va, ritírati adunque, io te n’assenno,
Rïentra in turba, nè mi star di fronte,
Se il tuo peggio non vuoi, chè dopo il fatto
Anche lo stolto dell’error si pente.
   Me co’ detti atterrir come fanciullo245
Indarno tenti, Enea rispose; anch’io
So dir minacce ed onte, e l’un dell’altro
I natali sappiamo, e per udita
I genitori; chè nè tu conosci
Per vista i miei, ned io li tuoi. Te prole250
Dell’egregio Peléo dice la fama,
E della bella equórea Teti. Io nato
Di Venere mi vanto, e generommi
Il magnanimo Anchise. Oggi per certo