Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/262

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349-378 CANTO IX 207

Ettore no, non voleva pugnare lontan dalle mura,
350ma solo nello spazio tra il faggio e le porte Sceèe,
dove una volta m’attese, e a pena di man m’uscí salvo.
Ma ora, poi, che voglia non ho piú di seco azzuffarmi,
a Giove e a tutti i Numi dimani farò sacrificio,
quindi caricherò, poi che in mar le avrò spinte, le navi,
355e tu vedrai, se pure tu vuoi, se la cosa t’importa,
le navi mie su l’alba solcar l’Ellesponto pescoso,
e le mie genti dentro piegarsi a gran forza di remi;
e se ci manda, il Nume che scuote la terra, bonaccia,
tre giorni ancora, e il suolo vedrò della fertile Ftia.
360Là molti beni lasciai, quando io qui ne venni in malora,
molto altro oro di qui, con fulvido rame, con donne
dalla cintura bella riporto, con candido ferro,
tutto ch’io m’ebbi in sorte. Si tenga Agamènnone il dono
che pria m’aveva offerto, che poi con la forza mi tolse.
365Or tutto questo di’, come io te lo dico, all’Atríde,
palesemente, perché si cruccino tutti gli Achivi,
se ancora alcuno ei voglia dei Dànai trarre in inganno,
di sfrontatezza sempre coperto com’è. Ma per quanto
muso di cane, me non potrebbe guardarmi negli occhi.
370Non vo’ nessun accordo con lui, né a parole, né a fatti,
ch’ei mi frodò, m’offese. Ma piú non saprebbe ingannarmi
con le sue ciance: gli deve bastare. Ora, vada in malora,
mi lasci stare in pace: ché Giove l’ha tolto di senno.
Sono i suoi doni odïosi per me, men che nulla io li pregio.
375Neppur se dieci volte, neppure se venti altrettanti
ei me n’offrisse di quanti n’abbia ora, od aver mai ne possa,
oppur quanti affluire ne vedono Orcòmeno, o Tebe
d’Egitto, ove le case son tutte ricolme di beni,