Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/254

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50-79 CANTO XXIII 251

50manda chi legna tagli, chi tutte le cose prepari
che deve un morto avere, scendendo alle tenebre inferne,
sicché l’arda la furia del fuoco che mai non si stanca,
faccia sparire il corpo, ritornino a guerra le genti».
     Cosí diceva. E quello ch’ei disse, fu tutto compiuto.
55Furono senza indugio le mense apprestate, e ciascuno
prese del cibo; e niuno restò che non fosse satollo.
E poi che fu placata la brama del bere e del cibo,
ciascuno alla sua tenda movean gli altri duci, al riposo.
Solo il Pelíde, sopra la spiaggia del mare sonante,
60giacea con grave pianto, fra molti Mirmídoni, dove
sgombro era il lido, ché sempre sovra esso battevano l’onde.
Lo colse infine il sonno, sgombrando le cure dell’alma,
in lui dolce s’effuse: ché molto pur s’era stancato,
quando Ettore inseguía sotto Ilio battuta dai venti.
65E l’alma sopra lui del misero Pàtroclo giunse,
simile a Pàtroclo in tutto, le forme, le fulgide luci,
la voce; e vesti a quelle di Pàtroclo uguali cingeva.
Sopra il suo capo stette, gli volse cosí la parola:
«Dormi, e di me tu sei dimentico, Achille. Scordarmi
70quando vivevo, tu non solevi: da morto mi scordi.
Dammi sepolcro al piú presto, ch’io varchi le porte dell’Ade,
ch’or me ne tengono lungi gli spiriti, l’ombre dei morti,
e non permetton ch’io valichi il fiume, e con lor mi confonda;
ma presso all’ampie porte dell’Ade vagando m’aggiro.
75E la tua mano dammi: piangiamo: ché mai dall’Averno
potrò tornare, quando m’abbiate affidato alle fiamme:
ché vivi, mai, piú mai, dai cari compagni in disparte,
stare a consiglio noi due potremo: la Parca odïosa
m’ha colto già, che m’ebbe, quand’io venni a luce, in potere.