Pagina:Imbriani - Dio ne scampi dagli Orsenigo, Roma, Sommaruga, 1883.djvu/112

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102 Dio ne scampi

E si arrovellava e s’indispettiva della debolezza propria. Meditava vendette, trastullando la fantasia con l’arzigogolar crudeltà che non perpetrerebbe, mai. Ebbe l’idea geniale di leggere, con espressione, alla moglie, a colezione od a pranzo, gli articoletti di cronaca od i fatti vari, che narravan castighi, inflitti da mariti alle consorti adultere. Glieli leggeva, con pause ad effetto, con occhiatacce significanti, quasi come avvertimento. La Radegonda a sorridere ed alzar le spalle: ed o non badava, altrimenti, al fatterello; o ci rifletteva, su per disprezzare quelle velleità d’Otello, e rugumava quanta dolcezza vi sarebbe, pure nel morire con e per l’uomo amato. Goduto il godibile, quando non è lecito aspettarsi altro, dalla vita e dal piacere, se non la sazietà, qual pazza ripugnerebbe alla morte? e l’esser trafitta, per mano di un marito imbizzarrito, è delle belle morti... seppure, come scrive quel franzese, seppure vi ha di belle morti. Questa sentenza memoranda, una volta, lei la fece ad alta voce. Il Salmojraghi le si voltò come una vipera; e stava per lasciar le metafore e votare il sacco: ma, incontrandone lo sguardo calmo, convinto, scorgendone il sorriso satirico, sprezzante e risoluto, non osò dir nulla e si tacque.

Un’altra fiata, il Salmojraghi, che, quella