Pagina:Infessura - Diario della città di Roma.djvu/21

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prefazione xix

cristiana egli conobbe dopo gli apostoli, è anche per l’I. un lume lucente, che accerta il passato e il futuro. E lui che «scripsit de pontificibus futuris usque ad nostra tempora»1; è lui che visse a’ tempi di san Cataldo2, del quale ultimo, a terrore di re Ferdinando, pur si dissotterra nel 1492 una profezia nova. Quando Bonifacio VIII muore come un cane, secondo la leggenda con cui l’I. incomincia il Diario, egli non fa che «finire la sua profetia»3 . Tutto quel viluppo di dettami profetici che pigliavano nome dalla Sibilla, da Merlino, dall’abate di Fiora, da Cirillo, le cui tavole argentee ebbero tanta potenza sulla fantasia di Cola di Rienzo, quelli di Telesforo da Cosenza sopra d’ogni altro, avevano esercitato tale impero sull’immaginazione del popolo, da sostenere colla speranza nei mutamenti che le profezie promettevano, la fede dei cristiani, scossa al vedere la già unica Chiesa divisa dallo scisma, portata via dalla sede tradizionale ed eterna di Roma, marcia per la potenza mal goduta, per le ricchezze mal profuse, per la povertà evangelica dimenticata. E se l’aspetto di pontefici studiosi delle basse utilità della terra, della cheresia corrotta, della fede schernita si tollerava come contingenza passeggera e destinata a sparire, ciò era per fiducia che sarebbe pur venuto il «clericus absque temporali dominatione», il papa angelico, scevro del temporale dominio, intento solo alle cose celesti, «qui

  1. Diario, p. 272.
  2. Diario, p. 272: «nam Catallus ... fuit tempore quo fuit etiam Ioachinus abbas».
  3. Cf. Diario, p. 4.