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Cicerone 65

posto: e viepiù nelle orazioni il calore del discorso o l’intento di piacere e di vincere gli faceano gittare alle spalle la verità1. Sosteneva un assunto quando gli servisse, non rifuggendo dal sostenere il contrario quando gli tornasse meglio. Leva a cielo i poeti difendendo Archia? li vitupera nella Natura degli Dei. Encomia i Peripatetici nella difesa di Cecina? li disapprova nel primo degli Uffizj. I viaggi di Pitagora e Platone trova stupendi nel quinto degli Uffizj, li trova sordidi nell’epistola a Celio: chiama povera la lingua latina in alcuni luoghi, in altri la fa più ricca della greca, anzi la greca accusa di povertà2.

Cicerone era stato educato nelle arti giuridiche sotto Lucio Licinio Crasso, il più reputato oratore d’allora e gran sostenitore del senato; ma non sciorinò bandiera; onesto, moderato, amante la costituzione che gli dava modo di sfoggiare il suo talento, pur velando il suo modo di pensare, si bilicò in quel giusto mezzo, che porta innanzi, non porta mai alla sommità.

Oggi qualificheremmo Cicerone per un conservatore, un dottrinario. Eclettico in filosofia, adotta i nuovi concetti morali che si aprivano la strada traverso alla rigidezza del prisco sistema giuridico; ride degli auguri, egli augure; esercita l’umor suo gioviale alle spalle de’ giureconsulti, aggrappati alle forme e superstiziosi delle sillabe, dei riti, delle azioni, delle finzioni arbitrarie3; antepone l’equità allo stretto diritto, e doversi cercare le vere norme, non nelle XII Tavole, ma nella ragione suprema scolpita nella nostra natura immutabile, eterna, da cui il senato non può dispensare, e che fu da Dio concepita, discussa, pubblicata4.

Benchè l’intera vita egli versasse negli affari, nulla di nuovo inventò circa a cose di Stato e alle leggi; e il patriotismo gli toglieva di fare degl’istituti nazionali una stima conveniente, al paragone degli stranieri. Il suo libro delle Leggi non sa che ammirare le antiche consuetudini romane. In quello della Repubblica, la cui recente

CantùItaliani Illustri, vol. I. 5
  1. «Ego quia dico aliquid aliquando, non studio adductus, sed contentione dicendi aut lacessitus; et quia, ut fit in multis, exit aliquando aliquid, si noi perfacetum, attamen fortasse non rusticum, quod quisque dixit id me dixisse dicunt». Pro Plancio.
  2. Pro Cecina; De finibus, III e I; De nat. Deorum, I; Tuscul., II.
  3. Pro Murena.
  4. De legibus, l, 5, 6; De repub., III, 17.