Pagina:Jolanda - Dal mio verziere, Cappelli, 1910.djvu/199

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A poco a poco quella sincerità d’arte, di pensiero, ci attrae, ci penetra, ci vince. Il ribrezzo svanisce, rimane il desiderio d’inginocchiarci accanto al ferito, di posargli la mano sulla fronte e di parlargli all’orecchio di fede e di perdono. E molto gli sarà perdonato poichè molto amò. La sua vita, i suoi canti sono un incendio, ma non un incendio vivo, libero, grandioso: la fiamma è nell’interno, soffocata, logoratrice, qualche volta aduggiata dal fumo, sovente guizzante all’esterno in lingue cocenti che avvolgono, lambiscono, scompaiono. Dal bruco all’astro, tutte le cose create cantò con anima di poeta vero. Quanti poeti inneggiarono alla neve! Eppure nessuno adoperò sfumature così delicate, nessuno ebbe accenti così spontanei, esultanze così fresche, quasi infantili:

La bella neve! scendete, scendete,
Leggiadri fiocchi danzanti nei cieli.
Come perluccie coprite, pingete
I tetti, i tronchi, la mota, gli steli.

Dacchè l’ottobre soffiando, spruzzando
Ingiallì tutta la vasta campagna,
Fuor da’ miei vetri ove fievole urtando
La farfalluccia dal freddo si lagna,

Mi morir cinque di rosa arboscelli,
E spirò l’anima a Dio la violetta;
Senza l’ammanto di viti, i cancelli
Sembran soldati disposti in vedetta.

Pur questa notte una mano furtiva
L’inaffiatoio rubommi in giardino!
(Se fu per fame che alcun lo rapiva.
Iddio nol vegga l’agreste bottino).