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fratellanza e morale 145


arso, se non ho carità quello niente mi giova. La carità è lenta all’ira, è benigna; la carità non invidia, non procede perversamente, non si gonfia».

Nessuno infatti ha diritto di sentirsi meritevole di lode, nessuno ha diritto di provare un sentimento di intimo compiacimento per aver dato agli altri, che ne hanno bisogno, ciò che a lui esubera. Abbiamo diritto, non mai di compiacerci, ma di rallegrarci soltanto, se, penetrando nel cuore degli altri, abbiamo potuto con l’amore e la simpatia veramente portare aiuto e conforto a un’anima in pena; perchè allora il nostro aiuto è stato savio, non adulterato da sentimentalismi, ma diretto da una netta visione della Realtà. Quanto spesso non ha maggior valore una parola di amore e di conforto di qualsiasi aiuto materiale! I più strani traviamenti del senso morale si palesano qualchevolta in queste cosiddette opere di carità mondane, e non intendo neppur parlare della vanità a cui spesso servono di scusa, nè di quelle persone che si trovano a far parte di tutti i Comitati, che sono fonti inesauribili di geniali idee di aiuto e di carità in parole, ma che poi del lavoro vero di queste opere lasciano il carico completamente agli altri, limitandosi a raccoglierne gli allori. Intendo invece rilevare, come il miraggio del fine benefico spinga talvolta a informare l’opera di carità a uno spirito di falsificazione e d’inganno che, lungi dal suscitare negli altri uno spirito di amore, desta in essi risentimenti e disgusto, ed estingue ogni desiderio di fare il bene.

Io stessa mi ricordo, per esempio, quando ero molto giovane, di una signora che si credeva una colonna dell’alta società, che ogni qualvolta aveva da offrirmi qualche biglietto di beneficenza improvvisamente mi dava del tu. Essa credeva di commuovermi,