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la capanna dello zio tom


che avesse a fare; la locandiera gli aperse l’uscio di un salottino, il cui pavimento era coperto di un tappeto comune, con una tavola in mezzo, coperta anch’essa di una tela incerata, con alcune sedie di legno dall’alta spalliera, intorno alla tavola, diverse figurine di gesso, dai luccicanti colori, sopra un camino in cui fumicava un fuoco semispento: e presso il focolare una rozza ed incomoda panca. Haley andò a siedervisi per meditare sulla instabilità delle speranze umane e sulla felicità in generale.

— «Che bisogno avevo io di quel furfantello — cominciò a dir fra sè stesso — per lasciarmi cogliere in questo modo alla rete?» Ed Haley tentava ripigliar animo con recitare una litania di imprecazioni contro di sè, le quali, tuttochè ben meritate, non vogliamo, per decenza, ripetere.

Fu scosso in quel mentre dalla grossa risuonante voce di un uomo, che parea smontasse alla porta; Haley corse alla finestra.

— «Per Bacco! è questo un colpo della Previdenza, come dicono taluni — esclamò Haley. — Parmi che sia Tom Loker.»

Corse subito per accertarsene; e vide, presso il banco, in un angolo della stanza, un uomo di color bruno, alto sei piedi, tarchiato, con indosso un pastrano di pelle di bufalo, cucito col pelo al di fuori, che gli dava un aspetto truce e selvaggio, in perfetto accordo coll’espressione della fisonomia. La configurazione del capo, i lineamenti del volto portavano una impronta sviluppatissima di brutalità e di audacia. Se i nostri lettori potessero imaginarsi un grosso cane trasmutato in uomo, in atto di passeggiare in su e giù con pastrano e cappello, non potrebbero ancor formarsi un’idea compiuta del carattere di questo tale. Avea seco un compagno di viaggio, che per molti rapporti contrastava stranamente con lui; un ometto snello, smingolino, dai subiti movimenti che tenean molto del gatto, con due occhietti neri, irrequieti, conformi ai tratti e all’espressione del volto; il suo naso lungo, affilato si protendea innanzi, quasi fosse sempre disposto a ficcarsi in ogni negozio; i suoi capelli rari, sottili, neri, erano accuratamente pettinati all’indietro, e il suo modo di atteggiarsi esprimea sempre l’astuzia, la malignità, il sospetto. L’omaccione riempiè un mezzo bicchier d’acquavite e lo tracannò d’un sorso. L’ometto si rizzò in punta di piedi; e dopo aver annasate, di qua e di là, le diverse bottiglie, domandò, con voce esile, tremolante e con aria di somma cautela, che gli portassero un giulebbo di menta. Quando gli fu versata, la prese, la guardò attentamente con espressione di compiacenza, come uomo il quale è persuaso di averla indovinata, e, racconciatisi i capelli, si mise all’opera di assaporarla a bell’agio.

— «Questa volta posso dire che la fortuna mi ha favorito; come siete qui Loker?» dimandò Haley, facendosi innanzi e porgendo la mano a quell’omaccione.