Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1842, I.djvu/177

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146 capo viii

fra’ quali connumerano e i passati e gli avvenire, e il particolar piacere doversi per sè stesso eleggere, la felicità non per sè stessa, ma pei singoli piaceri. E venire a prova dell’essere fine il piacere, lo accostarci a quello inavvertitamente da fanciulli, e possedutolo, niente altro cercare, e niente altro tanto fuggire, quanto il suo contrario, il dolore. Ed essere il piacere un bene, anche derivando da cose turpissime, come dice Ippoboto nel libro Delle sette; poichè quand’anche l’azione sia sconvenevole, il piacere è per sè stesso da desiderarsi ed un bene. L’allontanamento poi del dolore, come lo chiama Epicuro, sembra ad essi non esser piacere, nè la mancanza del piacere, dolore. Poichè ambedue consistono nel movimento, nè sono movimento la mancanza del dolore e la mancanza del piacere; essendo la mancanza del dolore uno stato come di chi dorme. Potervi bensì essere, dicono, chi per depravazione non appetisca il piacere. Nè certamente tutti i piaceri e i dolori psichici nascere da piaceri e dolori corporei, che anche per ogni lieve prosperità della patria, ovvero privata, si genera l’allegrezza. Ma neppure per la memoria o per l’aspettazione dei beni dicono prodursi il piacere, siccome pensa Epicuro; imperocchè il movimento dell’anima svanisce col tempo. E dicono non pel semplice vedere od udire nascere il piacere; dappoichè noi ascoltiamo con diletto le lamentazioni da coloro che le imitano, senza diletto le vere. E appellavano stato di mezzo la mancanza del piacere e del dolore. Certo migliori d’assai essere degli psischici i piaceri corporei, e peggiori i tormenti corporei: ond’è