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112 le confessioni d’un ottuagenario.

sapeva e sentiva che sulla natura io aveva una padronanza non concessa a lei; la padronanza dell’amore. La indifferenza di Lucilio per le alte occhiate del Partistagno e per le burlate dei fanciulli, io la sentiva per quei tiri principeschi della Pisana. E lontano dai merli signorili e dall’odore della Cancelleria, mi ripullulava nel cuore quel sentimento d’uguaglianza, che ad un animo sincero e valoroso fa guardar bene dall’alto perfin le teste dei Re. Era il pesce rimesso nell’acqua, l’uccello fuggito di gabbia, l’esule tornato in patria. Aveva tanta ricchezza di felicità, che cercava intorno cui distribuirne; e in difetto d’amici, ne avrei fatto presente anche agli sconosciuti o a chi mi voleva male. Fulgenzio, la cuoca, e perfin la contessa avrebbero avuto la loro parte d’aria, di sole, se fossero venuti a domandarmela con bella maniera e senza battermi le mani o strapparmi la coda. La Pisana mi seguiva volentieri nelle mie scorrerie campereccie, quando non trovava in castello il suo minuto popolo da cui farsi obbedire. In questo caso la doveva accontentarsi di me, e siccome nell’Ariosto della Clara ella si avea fatto mostrar mille volte le figurine, cosí non le dispiaceva di esser o Angelica seguita da Rinaldo, o Marfisa, l’invitta donzella, od anche Alcina che innamora e muta in ciondoli quanti paladini le capitano nell’isola. Per me io m’era scelto il personaggio di Rinaldo con bastevole rassegnazione; e faceva le grandi battaglie contro filari di pioppi affigurati per draghi, o le fughe disperate da qualche mago traditore, trascinandomi dietro la mia bella come se l’avessi in groppa del cavallo. Talvolta immaginavamo di intraprendere un qualche lungo viaggio pel regno del Catajo o per la repubblica di Samarcanda; ma si frapponevano terribili ostacoli da superare: qualche siepaja che dovea essere una foresta; qualche arginello che figurava una montagna; alcuni rigagnoli che tenevano le veci di fiumi e di torrenti. Allora ci davamo