Pagina:Le confessioni di un ottuagenario I.djvu/146

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CAPITOLO TERZO. 119


era un luogo deserto e sabbioso, che franava in un canale d’acqua limacciosa e stagnante; da un lato una prateria invasa dai giunchi allargavasi quanto l’occhio potea correre, e dall’altra s’abbassava una campagna mal coltivata, nella quale il disordine e l’apparente sterilità contrastavano col rigoglio dei pochi e grandi alberi che rimanevano nei filari scomposti. Io mi guardai intorno, e non vidi segno che richiamasse la mia mente a qualche memoria.

— Capperi! è un luogo nuovo! — dissi fra me, colla contentezza d’un avaro che scopre un tesoro. — Andiamo un po’ innanzi a vedere!

Ma per andar oltre c’era un piccolo guaio, c’era nient’altro che quel gran canale paludoso, e tutto coperto da un bel manto di giunchiglia. La gran prateria coll’ignoto e l’infinito si dilungava di là; al di qua non aveva che quella campagna arida e abbandonata, che punto non m’invogliava a visitarla. Che fare in quel frangente? — Era troppo stuzzicato nella curiosità per dare addietro, e troppo spensierato per temere che il canale si profondasse più che non avrei desiderato. Mi rotolai su le mie brache fino alla piegatura delle coscie, e discesi nel pelago impigliandomi i piedi e le mani nelle ninfee e nelle giunchiglie che lo asserragliavano. Spingendo da una parte e tirando dall’altra, mi faceva strada fra quella boscaglia nuotante, ma la strada andava sempre in giù, e le piante mi scivolavano sopra una belletta sdrucciolevole come il ghiaccio. Quando Dio volle il fondo ricominciò a salire, e me la cavai colla paura: ma credo che talmente fossi infervorato nell’andar oltre, che non mi sarei ritratto dovessi anco affogarne. Messo il piede sull’erba mi parve di volare come un uccello; la prateria saliva dolcemente, e mi tardava l’ora di toccarne il punto più alto donde guardare quella mia grande conquista. Vi giunsi alla fine, ma tanto trafelato che mi pareva essere un cane di ritorno dall’aver inseguito una lepre. E volsi intorno gli occhi, e