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252 le confessioni d’un ottuagenario.

quando la cena fu in pronto. Non si badò a distinzione di quarti o di persone. In cucina, in tinello, in sala, nella dispensa; ognuno mangiò e bevve, come e dove voleva. Le famiglie del fattore e di Fulgenzio furono convitate al banchetto trionfale; e soltanto fra un boccone ed un brindisi, la morte di Germano e la sparizione del sagrista e del cappellano richiamarono qualche sospiro. Ma i morti non si movono, e i vivi si trovano. Di fatti il pretucolo e Fulgenzio capitarono non molto dopo, così pallidi e sformati che parevano essere stati rinchiusi fin allora in un cassone di farina. Uno scoppio di applausi salutò il loro ingresso, e poi furono invitati a contare la loro storia. La era in verità molto semplice. Ambidue, dicevano, senza farsi motto l’uno all’altro, al primo giungere dei nemici erano corsi a Portogruaro per implorare soccorso; e di là infatti capitavano col vero soccorso di Pisa.

— Che? sono lì fuori i signori soldati? — sclamò il signor conte che non si era ancora accorto di aver perduto la parrucca. — Fateli entrare!... Su dunque, fateli entrare!

I signori soldati erano sei di numero compreso un caporale, ma in punto a stomaco valevano un reggimento. Essi giunsero opportuni a spazzare i piatti degli ultimi rimasugli dei porcellini arrostiti, e a ravvivar l’allegria che cominciava già a maturarsi in sonno. Ma poiché essi furono satolli, e il canonico di Sant’Andrea ebbe recitato un oremus in rendimento di grazie al Signore del pericolo da cui eravamo scampati, si pensò sul serio a coricarsi. Allora, chi chiappa chiappa, uno qua ed uno là, ognuno trovò il proprio covo, la gente di rilievo nella foresteria, gli altri chi nella frateria, chi nelle rimesse, chi sul fenile. Il giorno dopo, soldati, cernide e sbirri ebbero per ordine del signor conte una grossa mancia: e ognuno tornò a casa sua dopo aver ascoltato tre messe, in nessuna delle quali io