Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/559

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capitolo ventesimosecondo. 551

volta che lo stomaco non conta gli anni, quando la coscienza è tranquilla. Quello, credo, fu il colmo delle nostre gioie. Successero poi i brutti giorni, i disastri di Lombardia, gli interni sgomenti, le lungherie ubriache ancora di speranze ma volgenti sempre al peggio. Eh! ai vecchi non la si dà ad intendere tanto facilmente! Quell’inverno fra il quarantotto e il quarantanove fu pregno di lugubri meditazioni: non credeva più alla Francia, non credeva all’Inghilterra, e la rotta di Novara più che un improvviso scompiglio fu la dolorosa conferma di lunghi timori. Si combatteva omai più per l’onore che per la vittoria; sebbene nessuno lo diceva, per non scemar agli altri coraggio.

Dopo le pubbliche sciagure, cominciarono per noi i lutti privati. Un giorno vennero a raccontarmi che il colonnello Giorgi e il caporal Provedoni, feriti sul ponte da una bomba, erano stati trasportati allo spedale militare, donde per la gravità della ferita non era possibile traslocarli. Accorsi più morto che vivo; li trovai giacere su due lettucci l’uno accanto all’altro, e parlavano dei loro anni giovanili, delle loro guerre d’una volta, delle comuni speranze, come due amici in procinto di addormentarsi. E sì che respiravano a fatica, perchè avevano il petto squarciato da due orribili piaghe.

— La è curiosa! — bisbigliava Alessandro. — Mi par d’essere nel Brasile!

— E a me a Cordovado sul piazzale della Madonna! — rispose Bruto.

Era il delirio dell’agonia che li prendeva; un dolcissimo delirio quale la natura non ne concede che alle anime elette, per render loro facile e soave il passaggio da questa vita.

— Consolatevi! — diss’io, trattenendo a stento le lagrime. — Siete fra le braccia d’un amico.