Pagina:Le opere di Galileo Galilei IV.djvu/239

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di giorgio cortesio. 235

pediranno totalmente e saranno causa di quiete, come anche si vede per esperienza: e però Aristotile congiugne, nel quarto del Cielo, il tardo con la quiete e li referisce alla figura come causa. Ricerca poi: Se alcune figure fanno la quiete, adunque alcune raccolte saranno cause di moto; che è contr’Aristotile. Si risponde che non ci è conseguenza: perchè le figure non per sè sono cause di moto, ma di modo, cioè più veloce e più tardo, ed anche da per sè sono cause della quiete, in quanto il più forte per natura, per estensione lo fanno più debole, ed il superante superato.

Va ancora investigando l’Autore, se quella parola semplicemente si debba congiugnere con la parola causae o vero col verbo ferantur. A questo diciamo, che si ha da congiugnere con la parola ferantur, dove la pone Aristotile; ma ancorché si congiugnesse con la parola causae, non farebbe niente in favor suo: perchè Aristotile, come abbiamo detto, dalla diversità delle figure conclude il più meno veloce moto, onde se le figure si dessero, quali appartengono, a gli elementi, aiuterebbono elle bene il moto loro, inquanto la cosa mossa dee avere quantità figurata; ma perché in tal caso sono indifferenti, la indifferente natura seguendo, non vengono a variarlo secondo il tempo, perchè si come da indifferenti cagioni procedono indifferenti effetti, così dalle differenti, differenti effetti. Dice più avanti nel suo libro il Galilei, che da Aristotile, nel quarto della Fisica, sono attribuite le cause primarie del più e men veloce alla maggiore o minor gravità de’ mobili paragonati tra di loro, ed alla maggiore o minor resistenza de’ mezzi dipendente dalla maggiore o minor crassizie, e che la figura vien poi dallo stesso considerata più tosto come causa strumentarla della forza della gravità, e che da queste cose conclude che la figura per sé stessa non farebbe né gravità né leggerezza. La qual conseguenza diciamo esser falsa: perchè Aristotile nel quarto della Fisica parla di materie diverse, e nel quarto del Cielo della maggiore o minor velocità del moto nella medesima materia per la ragione delle figure.

Viene anco l’Autore a battaglia con Aristotile per un ago, e dubita contr’esso perchè posato leggiermente su l’acqua resti a galla non meno che le sottili falde di ferro o di piombo. Distrighiamoci di questa ancora, dicendo, in prima, che il Galilei cerca tra queste cosette se alcuna ne potesse trovare, per la quale gli riuscisse còrre Aristotile in qualche errore, come, per esempio, d’ortografia, e non in cose gravi; poi, che il fare l’esperienza se un ago sta a galla o no, è tanto facile ad ogn’uno, che non sarebbe stato men facile ad Aristotile, il quale volle vedere infinite e difficili esperienze. E gli intendenti della lingua greca sanno ormai che ’l vocabolo usato da Aristotile in questa materia, βελόνη, che in lingua latina significa acus, significa l’ago da reti, il dirizzatoio de’ capelli, ed altri aghi grandi: perchè, adunque, il Galilei non prese di questi? Ma per fare la sua esperienza ne prese uno che propriamente si dee dire aghetto o aghino, e non ago, e