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254 CAPITOLO OTTAVO

non d’altro. I capi del partito erano meno babbei. Davanti alla chiesina di Santa Maria, il dottor Molesin si toccò rispettosamente il cappello. Camin se lo toccò pure, ma in ritardo. Allora Molesin fece una smorfia quasi impercettibile.

«Parcossa?» disse il sior Momi, con un sorriso stentato.

«Gnente gnente» rispose l’altro.

Si erano intesi benissimo. Molesin aveva voluto dire, pensando alla Carolina: non basta toccarsi il cappello. E il sorriso del sior Momi era stato mezzo di smentita e mezzo di confessione soddisfatta.

«Xela questa, sta Montanina?» chiese Molesin alzando gli occhi lungo il pendìo verde di cui la carrozzella radeva il piede. Considerato il gran cappello aguzzo della villa, i piccoli sparsi cappelli aguzzi della cucina, della scuderia e della chiesa, ricordò i cosidetti casoni del piano, capanne dal tetto di paglia, e pronunciò il seguente giudizio memorabile:

«Un cason che gà famegia.»

Il sior Momi rise di un suo riso particolare - aho aho - a bocca spalancata.

«Bela bela bela» diss’egli. «Un cason, aho aho.»

La finezza del dottor Molesin gli si leggeva in viso. Quella del sior Momi era molto più recondita, portava una perfetta maschera d’insulsaggine. Momi Camin pareva un insulso timido che sapesse soltanto far eco, ridacchiando, alle parole argute dei suoi interlocutori. Soleva poi risuggerirle all’autore, per adulazione. Quel giorno, perchè Molesin si scandolezzava della strana casa, ebbe a ripetergli due volte, guardandolo cogli occhi stupidi:

«Cason, aho aho. Cason che gà famegia, aho aho aho.»

Teresina e Giovanni ricevettero i nuovi arrivati al-