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264 CAPITOLO OTTAVO

fiola, come xela mo co sta fiola? Xela contenta mo, povareta, de star col papà, adesso? Tanto, m’immagino, vero? Tanto, vero?».

La faccia malinconica, la voce dolce dolce del Dottor Sottile non toccarono Teresina. Il sior Momi aveva studiato fin dal primo momento di guadagnarsela, le aveva promesso un aumento di salario e mostrata la massima fiducia, ma non fu per far piacere al sior Momi ch’ella si chiuse in un riserbo diplomatico; fu perchè la faccia, la voce, i blandimenti di Molesin le ripugnavano. Rispose che non sapeva niente, che non poteva dir niente. Molesin entrò in chiesa, si fece devotamente il segno della croce coll’acqua santa, s’inginocchiò un momento prima di andar toccando e fiutando altare, candelabri, lampade, pilette. Egli credeva tutto che la Chiesa crede, così a fascio e senza averne notizia chiara, praticava nella misura esterna che la Chiesa esige; e poichè non pigliava il denaro altrui proprio dalle tasche nè dai forzieri, poichè il mentire era per lui un elemento costitutivo di qualunque affare e gli affari non sono proibiti dalla Chiesa, non si era figurato mai che fra le sue pratiche religiose e le sue pratiche civili ci fosse una stridente contraddizione. Anzi, quanto più s’infervorava nelle seconde, tanto più s’infervorava nelle prime. Quando aveva meglio imbrogliato e spennacchiato il prossimo, si studiava d’imbrogliare anche Domeneddio con qualche pater, ave, gloria, con qualche messa di più. Solamente, a lui non pareva d’imbrogliare nè il prossimo nè il Signore. Non si credeva un ipocrita. Teneva sul serio a un posticino in paradiso. Ascritto al partito clericale, n’era mal tollerato per la sua dubbia riputazione, ma fingeva di non avvedersene. Si appoggiava molto a qualche amicizia, da lui vantata e gonfiata, di preti che lo conoscevano poco. Uno di costoro era l’arciprete di Velo d’Astico, suo coetaneo e compagno di scuola.