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326 CAPITOLO DUODECIMO

La timida signora voltò a Lelia il viso vermiglio, le mormorò sfregando in grembo le mani una sopra l’altra, quasi a spremerne le sue ragioni di riluttanza: «proprio sa, propria sa.»

Don Emanuele non si curò più di lei, neppure la guardò più, rivolse a Lelia il discorso lungo che aveva preparato. Il sugo n’era questo. La locale Congregazione di Carità amministrava un legato a favore delle madri di famiglia povere, impotenti al lavoro per malattia o puerperio. Siccome in paese c’erano, a proposito di questo legato, molti lamenti, il cappellano aveva ottenuto dalla Congregazione che si nominassero due visitatrici e indicato insieme, per tale ufficio, la signora Fantuzzo e la signorina da Camin. A ogni due parole dell’oratore, la signora Fantuzzo gemeva. Gesummaria, Gesummaria! Era contenta di soccorrere i poveri da lontano ma da vicino non ci aveva gusto. Don Emanuele non se ne diede per inteso, invitò le due signore a prendere qualche accordo per la loro comune azione futura.

«Se non possono trattenersi adesso» diss’egli conchiudendo, «questa sera o domattina la signora Fantuzzo potrà recarsi alla villa da Camin. Si conosceranno meglio, parleranno di questo lavoro e intanto io preparerò un elenco delle madri che sarebbero a visitare subito.» Lelia uscì dal suo torpore, osservò che non sapeva se l’indomani mattina si sarebbe trovata alla villa. Infatti era risoluta, in cuor suo, di non lasciare il villino se prima non vi fosse arrivata la cugina di Santhià. Don Emanuele tacque, perplesso. Intanto fu bussato all’uscio, entrò don Tita. Salutò Lelia con un sonoro «divoto!» come se l’incontro sul ponte del Posina non fosse avvenuto, chiamò il cappellano in disparte, gli disse qualche cosa sottovoce, accennò a sua cognata di ritirarsi. Ella uscì, seguita da don Emanuele. L’arciprete si avvicinò a Lelia che si era pure alzata.